“Tua!” – Mezza Riga n. 19
Negli anni il doppio ha perso fascino e oggi viene percepito come un tennis minore. Perché fatica ad attirare pubblico e copertura televisiva? E si può fare qualcosa per salvarlo?
Testo di Giorgia Mecca
La prima immagine è una domenica di quasi estate, la stagione dei pomeriggi infiniti e della terra rossa. Il Tour si gioca in Europa, Monte Carlo inaugura il periodo più bello dell’anno e quando la TV non è accesa sul tennis, a tennis si gioca. È l’inizio degli anni Duemila, e se penso al tennis giocato e visto da vicino, penso a quattro ragazzi vestiti di chiaro che giocano un doppio. A quel tempo i club non erano accademie ma circoli ricreativi, esistevano gli affiliati e non le app che cercano campo, orario e avversario favorendo la dispersione, si organizzavano i tornei sociali, quasi sempre di doppio, spesso di doppio giallo, con sorteggio casuale delle coppie. Era quella la vera iniziazione al gioco. Lì si incontravano i pallettari, gli iracondi, i pontificatori, quelli con la racchetta di Pete Sampras, quelli che ti tiravano addosso, quelli che si giravano e gettavano le occhiatacce ai compagni alla fine di ogni punto perso, quelli che rubavano i 15, e poi quelli che volevano semplicemente farsi un’ora con gli amici.
Il tennis era ancora una questione di sudore e calze sporche e segni dell’abbronzatura; Andre Agassi doveva ancora diventare protagonista di un bestseller; David Foster Wallace da queste parti non era mai stato sentito nominare. C’era tempo per riflettere su monotonia e solitudine, su come, per sua stessa natura, il tennis stravolga la concezione dei rapporti umani, trasformando i compagni in avversari (a proposito di DFW, è lui che in Infinite Jest fa dire a un allievo di una prestigiosa Tennis Academy: “Come possiamo essere amici? Anche se viviamo e mangiamo e ci laviamo e giochiamo insieme, come possiamo evitare di essere centotrentasei persone tutte ammassate insieme, profondamente sole?”). Ma, appunto, erano tutte lezioni o paranoie che avremmo assimilato in seguito. Non soltanto per questioni anagrafiche, ma anche perché da amatori ci siamo trasformati tutti in aspiranti professionisti, gente che si prende sul serio: in fondo se vuoi scherzare, datti al padel.
Jannik Sinner era nato da qualche mese, e l’ossessione per il numero 1 non era affare nostro. Nei circoli riconosciuti come associazioni sportive dilettantistiche ci si andava a trascorrere il fine settimana, senza cattiveria, senza rancore o una letteratura a supporto. I nostri riferimenti erano legati a Panatta e Bertolucci; Clerici e Tommasi accarezzavano lo spettatore con le loro telecronache leggere, ci portavano in questi prati verdi senza mai farci scordare che si trattava di un divertissement, piccoli momenti di gioia effimera. La vita, i problemi erano altri.
Poi il tennis è diventato un’ossessione, il gioco della torre, uccidi o vieni ucciso. E quasi contemporaneamente il doppio è sparito dai club. Si è trasformato in un passatempo per irriducibili ottuagenari o giù di lì. Quello che succede nei campi di provincia riflette in parte ciò che accade nei gradini più alti del professionismo, dove il doppio è considerato un malato cronico da anni, snobbato dai big e mortificato dalla programmazione. Pur essendo riuscito negli anni, soprattutto in Italia, a regalarci momenti di vera gloria, continua a essere una specialità trascurata, seppur non trascurabile, per buona parte del tempo, eccezion fatta per le Olimpiadi o la Coppa Davis, competizioni in cui l’Italia grazie al doppio ha vinto sia l’oro che l’insalatiera.
Il doppio ha perso fascino sia per i giocatori che per gli spettatori. Questi ultimi rinnegano le origini (e pure un po’ di spensieratezza), gli altri non hanno tempo, devono farsi massacrare il corpo e lo spirito dal singolare. Sono lontani più per concezione che per cronologia i tempi in cui John McEnroe era il numero 1 al mondo in entrambi i ranking, campione a Wimbledon sia come singolarista che come doppista nel 1981, 1983, 1984. “La miglior coppia di doppio al mondo? John McEnroe e chiunque altro”, parola di Peter Fleming, il signor chiunque altro, l’uomo che ha diviso per anni il campo con mister “you cannot be serious”, condividendo con lui cinquantadue titoli ATP. L’americano si allenava poco, il doppio era la sua daily routine durante i tornei, lo aiutava nel serve & volley, nella posizione da adottare a rete. Giocare in coppia lo aiutava a vincere da solo.
Pur contemporaneo, e anzi di tre anni più grande, Bjorn Borg aveva un’idea più moderna del tennis. Per lui sì che era una questione privata, un monologo interiore cominciato quando era un bambino che trascorreva i pomeriggi a lanciare le palline contro la saracinesca del garage della casa in cui era nato. Più concretamente, il suo era un gioco da fondocampo, con poca confidenza con la rete, il doppio non aveva niente da insegnare ai singolaristi come lui. E non è un caso che sia stato proprio lo svedese a portare il professionismo a uno step ulteriore con la cura del fisico, gli allenamenti alla resistenza. Borg segna la strada anche in questo, nella specializzazione al singolare e alle sue paranoie.
Ci sono state, anche in epoca recente, commistioni tra i due mondi. In campo femminile Serena e Venus Williams sono state numero 1 al mondo sia in singolare che in doppio, conquistando 14 titoli Slam e ori olimpici, da Sydney 2000 a Londra 2012. L’ultima vittoria made by sisters, risale a Wimbledon 2016, quando Serena vinse anche nel singolare, il suo ultimo titolo sull’erba. Quella delle sorelle rappresenta la tesi, l’antitesi e la sintesi di ciò che significa essere una tennista, portata alle estreme conseguenze, ma comunque significativa. Nasci sorella, ti scopri avversaria quando non nemica, ti ritrovi compagna, a condividere uno spazio che prima era soltanto tuo. Ogni punto vinto un punto vinto insieme. Ogni punto perso, idem.
Le Williams non sono un caso isolato, nel femminile è meno raro che accada. L’esempio migliore è quello di Sara Errani e Jasmine Paolini. Partendo da Errani, era il 2012 quando l’azzurra a Parigi raggiunse la finale in entrambi i tornei, vincendo il doppio in coppia con Roberta Vinci. Dodici anni più tardi, nel 2024, Paolini ha sfiorato la medesima impresa, in coppia con l’eterna Errani (l’anno scorso il torneo di doppio femminile lo hanno vinto Siniakova e Gauff, con l’americana che quest’anno ha vinto il titolo anche in singolare). Quando Jasmine Paolini aveva parlato al suo ex coach Renzo Furlan della possibilità di aggiungere al singolare anche il doppio, lui le aveva risposto senza pensarci: “Subito. Sara è una miniera. Ti aiuterà anche quando in campo sarai sola”. Così è stato. Da quando giocano insieme, Paolini è diventata top 10, ed è il secondo anno consecutivo che raggiunge le WTA Finals in entrambe le competizioni. Per non parlare della Billie Jean King Cup, conquistata grazie al loro punto decisivo. In Davis nel 2025 non c’è stato mai bisogno di schierare la coppia Bolelli-Vavassori, reduce dalla semifinale alle ATP Finals. Ma nel 2024, il punto decisivo per assicurarsi un posto in semifinale lo ha vinto la strana coppia Sinner-Berrettini, un successo che forse non sarebbe stato possibile senza l’educazione ai doppi dei circoli ricreativi, dove si imparano le leggi meno spietate e solitarie del tennis agonistico.
Il fatto è che il doppio dimezza la fatica ma dimezza anche la gloria (oltre che il montepremi). Nella visione egoriferita dei giocatori contemporanei è meglio un piacere tutto per sé piuttosto che una sofferenza divisa a metà. I bambini cresciuti nelle accademie hanno scoperto il tennis grazie a Federer, Nadal, Djokovic, gli uomini che hanno cannibalizzato il tennis, vincere tutto e vincere da soli. D’accordo, il rispetto, le congratulazioni via social dopo le vittorie degli altri, la cerimonia di addio di Rafa Nadal sul Philippe-Chatrier di Parigi. D’accordo, l’ultimo match di Roger Federer alla Laver Cup, in coppia con Nadal: le loro lacrime sincronizzate, la sintonia percepita, le loro mani una sopra l’altra su cui è stata costruita una narrazione edulcorata ad uso e consumo del presente. Rivali sì, ma soprattutto amici. In realtà l’amicizia è arrivata quando la rivalità si è dovuta interrompere per cause di forza maggiore. Lo ha detto di recente anche Sinner, con Alcaraz non sono amici, sarebbe sconveniente, c’è troppo campo in mezzo, entrambi vogliono la stessa cosa, succede anche ai comuni mortali per ragioni molto meno nobili.
Il tennis ti snatura, disabitua alla condivisione. La convivenza, nessuno lo ammetterà mai, è quasi sempre forzata. Alzi la mano chi, tra i tennisti, è mai stato felice di vincere una partita in cui il match point è stato conquistato interamente per merito del compagno. Terribile a dirsi, e pure infantile, vagamente patologico, da insicuri cronici, ma questi siamo: animali tutt’altro che sociali. A volte scendiamo a compromessi.
È forse per questo che il doppio soffre, anche nei principali tornei gli spalti spesso sono vuoti, agli US Open del 2024 il montepremi è stato diviso nel modo seguente: 70 per cento per il singolare, 10 per cento per il doppio, 10 per cento per le qualificazioni del singolare, 10 per cento per attività collaterali. Follow the money, il resto vien da sé. I campioni di doppio a New York di quell’anno hanno conquistato 100 mila dollari a testa, l’equivalente del passaggio del primo turno nel torneo di singolare. Ci sono talk, dibattiti ai tavoli del Tour che contano, puntate intere di podcast. Il problema esiste e le motivazioni sono varie. Tra queste, appunto, pochi soldi e pochi big. I grandi nomi nel singolare, quando si iscrivono, spesso si ritirano quando vanno avanti nell’uno contro uno. Inoltre, le coppie si sfaldano di frequente e non c’è tempo per la fidelizzazione, per creare un brand. Anche i social li snobbano, non ci sono post, o sono troppo pochi, che raccontino le gesta o i dietro le quinte dei doppisti che alle spalle non hanno alcuna strategia di marketing che li riguardi.
Il fratello di Andy Murray, Jamie, uno specialista che l’anno scorso ha toccato il record delle mille partite giocate nel circuito professionistico di specialità, propone una riorganizzazione che passi da tabelloni concentrati nei primi giorni dei tornei e conclusi entro il giovedì o il venerdì, riduzione della durata degli incontri per renderli più adatti alla programmazione e più appetibili per pubblico e media, regole che impediscano il passaggio di turno senza giocare, in caso di ritiro, e iscrizioni saltuarie dei singolaristi, così da ristabilire credibilità competitiva. Lo statunitense Reilly Opelka, oggi numero 50 del ranking, ha detto che “bisognerebbe sbarazzarsi del doppio, specialità per singolaristi falliti, non in grado di far vendere biglietti”. Andrea Vavassori, forse non voleva riferirsi direttamente a lui quando, in un post su Instagram, ha scritto: “Il doppio è una disciplina che può portarti a competere per una medaglia olimpica, o magari a vincere la coppa Davis per il tuo paese, o a conquistare un titolo del grande Slam”. In generale, per l’azzurro, esattamente come il singolare, doppio e doppio misto “se promossi e aiutati nel giusto modo, possono portare gioia, passione e felicità agli occhi di chi le guarda”.
Vavassori, in coppia con Sara Errani, sempre lei, ha vinto quest’anno sia il Roland Garros che gli US Open (a New York avevano già vinto nel 2024). Proprio negli Stati Uniti, nel 2025, è stato introdotto un importante cambiamento nel doppio misto. Il nuovo format ha previsto che la competizione si giocasse la settimana precedente all’inizio del torneo, con sedici coppie e un montepremi da un milione di dollari. Tra le coppie in gara quelle formate da Pegula e Draper, Swiatek e Ruud (finalisti), Andreeva e Medvedev, Raducanu e Alcaraz. Nonostante il format fosse stato criticato dai doppisti, durante il torneo gli spalti erano pieni e il pubblico ha potuto assistere a ottimi match dal tempo ridotto (si giocava due set su tre con set di 4 game, senza vantaggi e con il tie-break sul 3 pari) in una commistione tra sport e intrattenimento, apprezzata soprattutto dai giocatori più giovani (per onor di cronaca Jannik Sinner si è ritirato dal torneo dieci giorni prima del suo inizio).
Il doppio misto è da sempre un campo minato. Rino Tommasi sosteneva che andasse completamente abolito, e Gianni Clerici, che parla di doppio a pagina 106 del suo libro Il vero tennis, scrive così:
Prima di tutto, per fare un doppio dovete trovare altri tre giocatori, possibilmente uomini: perché, se troverete solo un uomo e due donne, il doppio diventerà misto, dando luogo a una situazione che, spesso piacevole, mi è sempre parsa di estremo cattivo gusto su un campo sportivo. Ma in quale sport si è mai visto, andiamo, misurarsi l’uomo con la donna! E col rischio di esserne battuto. Se comunque il misto vi piace sino alle sue estreme conseguenze, vi ripeterò il consiglio del grande Borotra: “Affoler le femme!”. Il che consiste, poi, nel tirarle addosso con la massima violenza quando si sia avventurata a rete.
Il tennis è diventato letteratura con Open di Agassi, lo sport in cui si parla da soli senza vergogna, una boxe senza contatto, dove lo sguardo è sempre contro, mai accanto, perché accanto non c’è nessuno. Eppure è un bel sollievo, e da bambini e da amatori lo sapevamo: poter guardare una pallina che ci sfugge dalla racchetta e avere la fiducia necessaria per cercare il proprio compagno (il nemico di un tempo) e potergli urlare “Tua!”.
Giorgia Mecca è nata a Torino nel 1989. Gioca a tennis da quando ha memoria, e quando non gioca lo guarda. Collabora con Sky Sport, il Foglio e il Venerdì di Repubblica. Ha scritto un libro: Serena e Venus Williams, nel nome del padre (66thand2nd).
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Ottimo testo, ricco di suggestioni. Come sempre, brava Giorgia!!