Enigma Medvedev – Mezza Riga n. 5
Tennis sgraziato, sfuriate con arbitri e pubblico, racchette spaccate, conferenze stampa meravigliose: fenomenologia dell’uomo che per primo ha infranto il dominio dei Big Three
Testo di Marco Imarisio
Illustrazione di Francesca Gastone
Nell’afa umida dell’Ariake Tennis Park apparve dal nulla. Eravamo tutti sudati fradici, temperatura al suolo intorno ai quaranta gradi. Naturalmente, lui indossava una tuta dalle maniche lunghe con la zip chiusa al collo. Era stato attirato dalle urla, e si aggirava incuriosito dallo spettacolo della consueta rissa tra Fabio Fognini e un gruppo di giornalisti italiani, separati soltanto dall’obbligo delle misure sanitarie da seguire con attenzione. Microfoni a lunga gittata, un tavolo bianco per stare lontani gli uni dagli altri, le mascherine d’ordinanza. Quella di Tokyo 2021 fu l’Olimpiade del Covid, e prima che l’atletica italiana facesse quello che mai più accadrà, si parlava solo di questa sensazione di straniamento che ci avvolgeva tutti, atleti e addetti ai lavori.
Andai verso di lui. Mi presentai. Gli feci un gesto a indicare lo sconsolante spettacolo dei colloqui a distanza e gli chiesi cosa ne pensava. “Non saprei bene cosa dirti”, mi rispose nel suo perfetto francese. “Certo, è senz’altro una situazione kafkiana”. Mi venne quasi naturale domandargli se gli piacesse Kafka, che aveva appena citato. “A essere sinceri, so a malapena chi fosse”. Poi si mise a ridere, e aggiunse: “Ma ehi, sono pur sempre un tennista, non un professore, dovresti già essere contento così”.
Caro, carissimo Daniil. Che brutto scherzo ti ha fatto il destino. Sei finito dentro una di quelle brusche accelerazioni della storia, voi le chiamate uskorenje, da quando nel 1985 Mikhail Gorbaciov battezzò così il suo programma politico, che conteneva altre due parole russe destinate ad avere una certa rilevanza, glasnost e perestrojka, e Dio so solo sa come quella faccenda cominciata con il crollo dell’URSS sia poi finita male, che peggio non si può. Pochi mesi dopo quell’incontro, avresti vinto il tuo primo e unico Slam, ho omesso volontariamente l’avverbio “finora”, perché è chiaro che quel che è stato non tornerà più. Non era mica un Major qualunque, quella edizione dello US Open. Passerai alla storia per avere negato a Novak Djokovic un Grande Slam che sembrava ineluttabile. Soprattutto per questo verrai ricordato, per aver negato la gioia più grande a quello che dichiari essere un tuo grande amico, e il modello al quale ti ispiri.

Ma se non c’è paradosso, non c’è Daniil Medvedev. Nel settembre 2021, la vittoria nel Major sembrava fosse il punto di partenza per un dominio nuovo e particolare, e questo russo dal tennis, dai lineamenti e dai pensieri tormentati sembrava essere diventato l’uomo destinato a chiudere l’epoca dei Big Three. Era arrivato di soppiatto, quasi a rimorchio del suo fraterno amico Andrey Rublev, che sembrava il predestinato della covata nata negli anni Novanta e uscita dalle forche caudine dello Spartak di Mosca, il club fucina dei campioni o aspiranti tali della Federazione. Una specie di gulag adolescenziale dalle regole severissime, professionisti a partire dai dodici anni, solo allenamento, pochissimo studio e gerarchie da caserma. Dev’essere per quello, per una precoce insofferenza alle regole di ogni genere che lo rende così particolare in campo e fuori, che chiese ai suoi genitori di spedirlo lontano, allora si poteva ancora. Dovette superare i loro dubbi, perché a quindici anni non era nemmeno tra i primi trecento della classifica juniores, e forse fu anche per questa ragione che la Federazione Russa lo lasciò andare senza troppi rimpianti.
Arrivò in Francia, ad Antibes, nella Costa Azzurra ricettacolo di ogni accademia e ogni promessa grazie al bel tempo costante. Dietro pagamento di cospicue rate annuali da parte della famiglia, finisce alla Elite Tennis di Cannes, centro creato dall’ex giocatore Jean-Renè Lisnard seguendo una filosofia improntata al professionismo: niente ragazzi parcheggiati a tempo indeterminato, solo giocatori veri, un posto per gente convinta. Durante le vacanze di Pasqua del 2014, l’aspirante coach Gilles Cervara viene incaricato di fare due ore di allenamento con questo ragazzo silenzioso e forse un po’ matto, parole del titolare del centro, che voleva diventare giocatore professionista. “Arrivai in orario e non c’era nessuno”, racconta l’uomo che sarebbe poi diventato la sua ombra. “E già questo era anomalo. Dall’altra parte del campo vedo uno spilungone vestito come per andare in spiaggia, senza borsa, con una racchetta sola in mano e nell’altra un sacchetto con dentro due banane e una bottiglietta d’acqua. Alla Elite, dove vigevano regole militari, era una visione quasi assurda. Dopo qualche minuto, mi viene un dubbio: non sarà mica lui?”.
E qui comincia l’avventura. A fari spenti, nella classifica mondiale. Nessuno fa caso a Daniil. Tutto fuorché un predestinato, termine oggi molto in voga per via di Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, che lo sono davvero. Entra nei primi cinquanta del mondo alla fine del 2017, quando ha già ventuno anni. Tutto abbastanza normale. La progressione che segue, invece, non lo è. Alla fine del 2018 è nei primi trenta, top 15 nel febbraio 2019, top ten a luglio, nei primi cinque ad agosto, quando domina la stagione americana sul cemento. Due epifanie. La prima, a Cincinnati. Novak Djokovic sta tranquillamente gestendo la sua semifinale, ma all’improvviso si innervosisce, e inizia a urlare con il suo angolo. Dall’altra parte, Daniil sta facendo qualcosa che non ha mai fatto nessuno. Semplicemente, inizia a servire due prime palle, tirando la seconda ancora più forte, sempre intorno ai duecento chilometri all’ora. Uno scarto di lato, un lampo di follia, che destabilizza l’uomo abituato a dominare mentalmente i suoi avversari.
Quel russo sgraziato, che colpisce come mai prima si era visto, tutto storto, che è alto due metri ma gioca due metri lontano dalla riga di fondo, dove vuole andare? Sembra un airone di passaggio, il suo stile di gioco fa inorridire generazioni di coach che predicano la giusta distanza dalla pallina. Invece, plana alla finale degli US Open, dove arriva in finale e perde solo dopo aver rimontato due set al miglior Rafael Nadal di sempre nella fornace di Flushing Meadows. E lo fa irridendo a ogni turno il pubblico che lo ha preso di mira, invitandolo a ululare più forte, dicendo che più lo fischiano, più gli fanno un favore. “Voglio ringraziare chi è qui, perché è solo grazie alla vostra energia che ho vinto. Ero così stanco dopo la partita di ieri, non ci sarei riuscito senza di voi […] Stanotte quando andate a dormire voglio che sappiate che oggi ho vinto per merito vostro: più lo farete, di urlarmi contro, più vincerò, andate avanti così”.
A quel punto, la monarchia del tennis capisce davvero di trovarsi in casa un gatto strano. Un giocatore e un uomo impossibili da mettere in una casella. Infatti, in un ambiente che da tempo si interroga sul possibile erede dei Big Three nel tentativo di stabilire impossibili gerarchie, a nessuno viene in mente di fare il suo nome. Troppo diverso, da tutto e da tutti. Qualche avvisaglia c’era già stata. Nel 2018, le telecamere avevano ripreso il suo tremendo litigio con Stefanos Tsitsipas. “Vuoi chiudere quella c… di bocca? Te ne vai al cesso per cinque minuti, poi non chiedi scusa per un net. Cosa c… credi di fare? Credi davvero di essere un bravo ragazzo? Guardami in faccia!!!”. A voler fare della filologia sulla psiche di Daniil, pochi mesi prima aveva celebrato la sua sconfitta al primo turno di Wimbledon contro il belga Bemelmans lanciando monetine al giudice arbitro, e prendendo la seconda multa più pesante nella storia centenaria dello Slam inglese. Diciamo che i segni c’erano già tutti.

Per un mondo ormai globalizzato e dominato dalle false amicizie create da uffici stampa compiacenti, quei primi momenti di folle sincerità sono una terapia d’urto. È arrivato finalmente uno che non le manda a dire, un irrequieto incapace di frenare la lingua e fingere di essere qualcosa di diverso da quello che è. E infatti, Meddy diventa il cattivo, quello che viene programmaticamente fischiato. Tanto più che è portatore di un tennis storto, anomalo, strano e duro da vedere, in quanto in quei movimenti sgraziati si percepisce la sua fatica e al tempo stesso la volontà dichiarata di far giocare male l’avversario: “La mia tattica è far soffrire chi ho davanti”. Ma anche: “Quando rivedo i miei colpi in video, mi ritrovo a pensare: cosa diavolo sto facendo?”.
C’è un problema, però. L’uomo risulta fin da subito di una simpatia e di una naturalezza disarmanti. Non finge, mai. Anche quando gli converrebbe. Le sue conferenze stampa diventano un sottogenere letterario e si fanno sempre più affollate, un appuntamento da non mancare, con disamine tecniche mai banali e bizzarrie alternate a confessioni esistenziali che inducono empatia. La sua eterna lotta contro la terra rossa è ben documentata ovunque. “Gerry, per favore squalificami, sono tutto sporco, ho i calzini e i pantaloncini zozzi, non ne posso più di cambiarmi”. “Già questa superficie fa schifo, inutile che ci sbatto sopra la racchetta, non saprei come rovinarla ancora di più”. “Non voglio mai più giocare su questa palta”. Se nel circuito ognuno ha un suo momento Medvedev, chi scrive ricorda la sua uscita prematura, al primo turno contro l’ungherese Fucsovics, nel Roland Garros autunnale e deserto a causa del Covid. Ai tre spettatori presenti sul Lenglen per una assurda sessione serale, dopo un match giocato con poca voglia, e stiamo usando un gentile eufemismo, mentre si avviava all’uscita riservò questa perla: “Dai, venite via con me, offro biglietti di ritorno per tutti”.
Ma Daniil è anche l’uomo che si mette e nudo come nessun altro, e che offre sensibilità e rispetto a piene mani, che quando esagera lo riconosce, chiede scusa e ci riflette sopra. Dopo aver negato il Grande Slam a Djokovic, festeggia in maniera surreale, buttandosi a terra a formare una L (“Mi piace giocare a Fifa alla Playstation, la mia esultanza è stata L2+tasto sinistro”, qualunque cosa significhi la lasciamo così, per i posteri), diventa serio all’improvviso, mostrando di aver capito l’importanza di quel passaggio storico: “Sappiamo tutti per cosa stavi giocando oggi. E ti chiedo scusa. Non l’ho mai detto a nessuno ma lo dirò ora: per me tu sei il più grande di tutti i tempi”. Pochi mesi dopo, quando viene rimontato da due set a zero contro Nadal in una finale degli Australian Open dove il pubblico tifò senza alcun freno inibitore per il vecchio guerriero spagnolo, non nascose il suo lato debole, una vulnerabilità che gli rendeva onore. “D’ora in poi giocherò per me stesso, per la mia famiglia, per le persone che si fidano di me e mi vogliono bene. Il bambino ha smesso di sognare”.

Proprio quella sconfitta segna la fine del breve regno felice di Daniil primo. Perché quello di Medvedev, primo numero uno del mondo dopo vent’anni di dominio della Santissima Trinità Roger-Rafa-Novak, non è un nome destinato a rimanere. Diventerà un oggetto di culto, come lo era Miloslav Mecir negli anni Ottanta, un giocatore strano e diverso, di nicchia, una figurina per completisti. Il suo destino è di essere postumo in vita, la sua permanenza in vetta si rivela un interludio, un apostrofo russo tra le parole Big Three e Alcaraz-Sinner. In quel 2021 non ci sono ancora nell’aria i sentori di un cambio di stagione che si mostrerà crudele con chi rimane preso in mezzo. Oggi Medvedev fa parte di quella generazione perduta, un nome tra i vari Zverev, Tsitsipas, Rublev, e poco importa se è stato l’unico ad arrivare vicino al sole. Anzi, per lui è peggio. Gli altri, i suoi compagni di viaggio, schiacciati tra l’attesa della fine del dominio dei vecchi e rapido ingresso dei giovanissimi fenomeni, sono rimasti fedeli a se stessi e ai loro limiti, ma comunque immersi nella contemporaneità del loro tennis, solo più deboli dei nuovi arrivati.
Daniil ha invece scoperto che il suo gioco così peculiare, all’improvviso si è rivelato obsoleto, superato non solo dai ritmi folli di Alcaraz e Sinner, ma anche dall’evoluzione di questo sport. In un mondo dove tutti tirano più forte che possono, gli scambi di 45/60 colpi, le sottigliezze geometriche, l’ossessività delle diagonali infinite, non sono più moneta corrente. Cambiare qualcosa si può, e ci provano tutti, ma non la propria natura, quello invece è impossibile. Oggi Medvedev si trova qui, in una terra di nessuno. Galleggia. Si è fatto più saggio, è sempre un distillato di surreale intelligenza, ma alle sue conferenze stampa non viene più nessuno. La storia del tennis gli è passata davanti agli occhi. E lui non ha potuto farci niente. Prima batteva Sinner a piacimento; poi, quando quello è uscito dall’adolescenza, non c’è stato più niente da fare. C’è qualcosa di simbolico, e ovviamente non manca nemmeno il paradosso, che il capolavoro assoluto di Daniil siano stati i primi due set giocati nell’ennesima finale dell’Australian Open perduta, quella del gennaio 2024 contro il nuovo che avanzava. Nei turni precedenti, era stato in campo 20 ore e 33 minuti, alla sua maniera, complicandosi la vita in ogni modo possibile, guadagnandosi l’ultimo atto per sfinimento. Sapeva di non averne più e per quasi due ore scelse di non essere più se stesso, giocando un tennis di attacco innaturale per lui, finalizzato da volée così artigianali da rendere la misura della precarietà di quella tattica.
Sappiamo com’è finita, e sappiamo anche che molto probabilmente per Daniil non ci saranno più altre occasioni. A quasi trent’anni, sta trovando la pace, sembra un saggio padre di famiglia, non più un luciferino personaggio da romanzo russo. In quella Olimpiade deserta e ormai lontana, dove giustamente si lamentava della programmazione assurda, “Se muoio di caldo, chi sarà responsabile?”, perse nei quarti di finale contro Pablo Carreno Busta, e non la prese bene. Distrusse la sua Tecnofibre sul cemento dell’Ariake Tennis Park e la lanciò sugli spalti. La raccolsi io. Ma il prezioso cimelio mi venne subito sequestrato dai solerti sorveglianti olimpici, il regolamento non lo consentiva. Mesi dopo, quando lo incrociai al torneo indoor di Parigi, gli raccontai quell’episodio. “Mi dispiace”, fu la risposta. “Ma se ci tieni, te ne spacco una qui, ora, apposta per te”. Scoppiammo entrambi a ridere. Caro Daniil, anche se il tuo tempo è stato breve, sei stato unico. E mancherai.
Marco Imarisio, nato a Milano nel 1967, è inviato del Corriere della Sera.
Segui Mezza Riga su Instagram. Se vuoi sponsorizzare questa newsletter, scrivi a: info@nredizioni.it
È raro trovare un pezzo che ti attraversa così. Davvero bello, grazie
Grazie. Bell'articolo, davvero.
Andrea