Ventisei anni in fila per Wimbledon – Mezza Riga n. 7
Si accede all’All England Club solo tramite una lotteria o la famosa Queue. Un racconto personale, tra una notte sul prato di Church Road e l’emozione di farcela nel giorno più caldo dell’anno
Questo numero di Mezza Riga è realizzato grazie al sostegno di Lavazza.
Testo di Elena Marinelli
Illustrazione di Giulia Neri
Mi ci sono voluti ventisei anni, un marito molto fortunato, pazienza, dormire su un prato della campagna inglese, senza tappi per le orecchie ma con due paia di calzini, in mezzo a russatori molesti e una grande capacità di sopportazione del caldo. Alla fine sono entrata a Wimbledon.
La prima volta che ho pensato di farlo era il 1999 e avevo programmato tutto: avevo soldi sufficienti, una mappa precisa, la strada evidenziata, le fotocopie dell’articolo che raccontava come si entra al circolo di tennis più famoso del mondo. Avevo diciassette anni da compiere e un solo desiderio: vederli giocare a tennis. Steffi Graf, Andre Agassi, Pete Sampras mi sono arrivati in mente come dardi.
In metropolitana, l’eccitazione non era sulla mia pelle, ma su quella di qualcun altra, seduta accanto a me, che guardava fuori, stringendo lo zaino tra il libro e la giacca di jeans, mentre ricacciava indietro il pensiero peggiore di tutti, anche quello arrivato come un fulmine: E se non mi fanno entrare? Nel 1999 Southfields era per me un posto lontano, e uscita dalla stazione della metropolitana ciò che aveva il suono vago di Wimbledon era solo il nome del viale, che sarebbe arrivato dritto al paradiso. O meglio: al cancello del paradiso.
Non entrai all’All England Club fino al 25 agosto 2022, quando prenotai una visita guidata con la mia famiglia, per celebrare il mio quarantesimo compleanno. Qualcuno mi aveva chiesto cosa avrei voluto fare prima dei fatidici 40 e io avevo risposto: “Vedere tutti gli Slam”. Ma era prima del COVID e della vita adulta.

Sono circa quindici anni che provo a vincere la lotteria di Wimbledon, il cosiddetto Public Ballot: non ce l’ho mai fatta. Ci si iscrive compilando un form online e in palio c’è la possibilità di acquistare un biglietto nominativo per sé e per un ospite per un giorno e un campo stabiliti. La fortuna è un sistema democratico? Non del tutto. La fortuna è una dea e basta, ma giocare a tennis insegna che la fortuna gira sul serio, non solo per proverbio, il nastro dà e il nastro toglie, così come la riga, bisogna solo essere lì a raccoglierla o ad aspettare che torni.
Non ho mai considerato di fare la fila, che in effetti è un sistema democratico, preso solo per quello che è: quel giorno del 1999, arrivata al cancello, non sono potuta entrare perché gli accessi erano terminati, e io avevo fatto una fatica inutile. La fila, la Queue, l’unico altro modo per accedere al torneo, per moltissimi anni mi è sembrata una fatica inutile, una gioia che poteva essere spezzata sul più bello.
A Wimbledon raccontano che il sistema del Public Ballot e della Queue sono appunto democratici, perché non solo permettono a chiunque di partecipare, ma di farlo in modo poco costoso: Un giorno di partite al Centre Court per tutta la prima settimana – dicono – costa circa 100 pound, e se ci pensi il Centre Court è considerato il campo di tennis più prestigioso al mondo.
Se si considera la partecipazione fine a se stessa, in effetti la spesa di una giornata a Wimbledon è gestibile: si può portare il proprio cibo, la borraccia da riempire d’acqua dai distributori aperti a tutti, persino tupperware di fragole comprate al supermercato. Non si paga per accamparsi ma solo per depositare i bagagli. E poi c’è il prezzo del biglietto, se si riesce e si vuole entrare. Per quanto riguarda la volontà di esserci, invece, la fatica è tutta qui: la fila non è altro che espressione dell’esserci, nel modo più tradizionale possibile.
Le informazioni su come affrontarla sono sempre più precise e dettagliate: oggi si può statisticamente sapere quando è consigliabile mettersi in fila, se si vuole tentare di sedersi in uno degli show court, ossia i campi principali, oppure quando si raggiunge il limite massimo di ingressi per una determinata giornata e non ha senso nemmeno andare a Church Road.
Il giorno nel quale faccio la fila è il 1° luglio, il secondo del torneo. Quando decido, non conosco l’ordine di gioco, né tantomeno se tutti i tennisti e le tenniste che vorrei vedere giocheranno a Wimbledon. La scelta cade sul primo martedì soprattutto perché in un giorno d’inverno mio marito Simone ha ricevuto un’email da Wimbledon che lo avvisava di aver vinto la lotteria per Court 1, uno dei due coperti, proprio per il 1° luglio 2025, con la possibilità di acquistare per 180 pound il suo biglietto e quello per un guest. Non sarò io il suo guest, ma il più piccolo della famiglia, Paolo. Forse era destino che prima o poi io facessi i conti con la fila, a quel punto, e provare a essere anch’io a Court 1; ma la verità era che avrei potuto contare su due amici che vivono a Londra e hanno fatto questa esperienza due anni fa. L’unica cosa che faccio prima di partire è scaricare l’app di Wimbledon e creare un account gratuitamente: mi sarebbe servito per l’eventuale accesso al torneo.
Le previsioni del tempo, fino al 20-22 giugno, davano pioggia per il 1° luglio. Il meteo della BBC era certo. Simone e Paolo sarebbero stati salvi sotto al tetto di Court 1, io avrei dovuto inventarmi qualcosa per non pensare alla seconda – e davvero ultima – occasione mancata. Per scaramanzia sul foglio delle cose da fare, accanto alla Stele di Rosetta, al London Eye e allo scone più buono che avrei potuto mangiare – appunto il desiderio di un panino senza lievito, ma pronto a raccogliere possibilità diverse come la marmellata di fragole appiccicosa, l’uvetta, la cream cheese – scrivo un gigantesco punto interrogativo accanto al 1° luglio 2025.
Le previsioni della BBC cambiano, succede spesso. L’estate a Londra quest’anno inizia come in tutto il resto d’Europa: non andate in metropolitana senza acqua, ammonisce ora la TV di Stato britannica, idratatevi durante le ondate di severe heat, mettete strati di carta di alluminio sulle vetrate delle vostre case e sui lucernai delle vostre mansarde, spalmate la crema solare. Il 1° luglio 2025 – recita ora il meteo – potrebbe essere la giornata più calda del 2025. Per me il lato positivo è che non servirà la tenda per accamparsi (sì, bisogna accamparsi), non è troppo umido e la temperatura notturna sarà intorno a 22 gradi centigradi. Potrò dormire vestita con jeans, maglietta e una camicia a maniche lunghe, ma senza rinunciare a un plaid: è pur sempre erba, è pur sempre la campagna londinese, come ripete chi mi accompagna.
A che ora mettersi in coda? Questa è la decisione più importante: si può optare per il mattino prima dell’alba e avere accesso al Grounds per tentare di sedersi ai campi laterali – chiunque può, ciascuno a turno quando si libera un posto – oppure per iscriversi al resold dei biglietti degli show court durante il pomeriggio, possibile perché chi va via prima libera un posto che può essere comprato da qualcun altro per 15 pound. Non è obbligatorio accamparsi, si aspetta sull’erba che arrivi l’alba e poi ci si mette ordinatamente in fila nelle prime ore del mattino. Si può scegliere, invece, la strada più lunga ma anche più sicura: conquistare il biglietto della queue al mattino presto del giorno precedente a quello desiderato, per essere certi di entrare al Centre Court.
Nel mezzo, c’è chi si accampa e sceglie di passare la notte a Wimbledon Park, in base ai flussi che man mano si registrano durante la giornata precedente. Noi decidiamo durante il pomeriggio del 30 giugno di dormire accampati, perché la fila per gli ingressi del 1° luglio è iniziata presto nel pomeriggio, e intorno alle 19 ci sono già circa 700 persone accreditate. Arriviamo alle 23:25 con a seguito gli zaini, due borse, un trolley e un sacco a pelo che diventerà un materasso da appoggiare sull’erba bassa e sottile. Con noi abbiamo i plaid, le maschere per evitare la luce, il power bank per il telefono, degli snack, una pila, la crema solare, un ombrello, i vestiti anche di ricambio. Prendo due paia di calzini e lo scaldacollo.
Quando arrivo non ho tempo per le foto, è già buio, non mi fermo, non realizzo dove sono, devo correre ad accaparrarmi un posto entro il numero 1.500, quindi con una certa velocità fino all’ingresso. C’è un arco che ci porge il benvenuto e uno steward ci chiede se abbiamo una tenda, in quanti siamo: è uno dei tanti volontari che incontrerò e che mi daranno più o meno buone notizie. E questo è il momento: è lui che indirizza le persone, le smista e assegna loro un posto, consegnando il cartoncino della queue, dove sono scritte le indicazioni principali, le istruzioni d’uso e il numero di posto in fila. A me tocca il 1.374, sono dentro agli show court ma per sapere quale devo aspettare ancora molte ore. Gli show court sono i Campi 1, 2 e Centre Court: 500 posti al giorno sono in vendita il giorno stesso senza maggiorazioni, quindi chi si mette in fila entro il posto 1.500 può comprare uno dei biglietti.
Faccio fatica ad addormentarmi perché c’è brusio, arriva dalle tende da camping attorno, dai gruppi di persone che nel loro quadrato di spazio si raccontano storie di tennis, di partite viste di persona o in TV in cui Carlos Alcaraz batte chiunque, fino ad arrivare a quando batte Jannik Sinner qualche settimana prima. Mi tiro su. Parlano spagnolo, uno spagnolo non castigliano, ma del Sud America, e quando mi siedo smettono di parlare di Alcaraz, e passano a tanti altri, fino ad arrivare al torneo di tennis in cui due di loro si sono affrontati in finale. Quello che ha perso parla di “sfortuna”. Non si chiude occhio, quindi apro l’app di Wimbledon e guardo i risultati del primo giorno e l’ordine di gioco dell’indomani. Mentre penso al mio numero mi addormento, il sonno dura cinque ore.
La prima sveglia è alle 6:30 circa: gli steward. Non mi sono raffreddata, non sento il tepore dell’alba e lo scaldacollo diventa anche un copricapo. Il villaggio attorno a me si fa nitido: copriamo il prato, anche i corridoi alla mia sinistra sono pieni. Le hostess che fanno il secondo giro per chi ha il sonno più pesante sono più gentili, anche se risolute. Non gridano, si limitano a mettere un po’ di fretta: alle 8 la fila già si muove e lo fa in ordine, come previsto. Tutti sanno dove posizionarsi: anche per fare un passo si aspetta il proprio turno, nessuno smania per vedere cosa accade qualche posto più in là, nessuno fa finta di essere arrivato prima, nessuno pretende qualcosa oltre ciò che è dovuto. Non c’è scritto, ma Enjoy the queue sarà il mantra della giornata, perché al cartoncino con il numero non ci sono nomi o documenti collegati, c’è solo la mia presenza: posso assentarmi dalla fila senza perdere il posto per un massimo di 30 minuti.
Abbiamo la certezza di ottenere la possibilità di un biglietto quando siamo a metà strada, lungo il sentiero ogni tanto in ombra che conduce dal parco alla biglietteria, mentre costeggiamo il parcheggio. In prossimità della biglietteria, un’altra fila disciplinata: un corridoio per ogni show court, dove ci inseriamo e l’acquisto è veloce. Una volta dentro, ci iscriviamo anche al resold per il Centre Court: davanti a noi, nella fila virtuale che si può tenere d’occhio sull’app, ci sono circa 300 persone. Quante possibilità ci sono che ben 300 persone lascino il loro posto anticipatamente?
All’interno dell’All England ci sono punti dedicati con fontane d’acqua, punti ristoro da cui si può comprare per 5 pound una bottiglia d’acqua con cui fare tutti i refill che si desidera, le fragole con panna a 2,70 pound, il Pimm’s a 12,75, lo shop ufficiale, gli stand degli sponsor, quello dove si possono acquistare per 2 pound le match ball, cioè alcune delle palline usate sui campi. Soprattutto: ci sono i bagni pubblici migliori che abbia mai praticato.
Abbiamo già caldo, i campi scoperti non hanno ombra, non c’è modo di trovarne nemmeno uno scampolo, se non rinunciando al tennis e allora nessuno lo fa, non si può. Il rumore del rovescio di Lorenzo Musetti e quello dei suoi piedi che scivolano veloci sulla linea di fondo sono chiari e forti: lo vedo perfettamente, posso assistere a ogni mossa, a ogni preparativo di movimento, a ogni parolaccia (o peggio), e allo schiocco che fa la pallina quando esce dalla racchetta per diventare rovescio. È un’esperienza che mi commuove e durante l’ora più calda della giornata non riesco a pensare di voler essere altrove, mentre vince il secondo set. Dal terzo in poi la sua partita cambia e anche il caldo aumenta: il suono dello sventolìo dei ventagli pure, il clic degli ombrelli per ripararsi dal sole sembra più assordante, mentre l’italiano si sgretola punto dopo punto. Ho caldo, ma ormai resisto, il peggio è passato. Il peggio è stato vedere Lorenzo Musetti accasciato sulla sua racchetta. Il caldo in fondo non è niente.
Mentre torno a casa racconto a mio figlio le cose più importanti e lui mi racconta le sue: due Wimbledon diversi, i suoi occhi che si fanno enormi mentre mi dice com’è andata la partita di Jannik Sinner e i miei gesti che si fanno sempre più plateali mentre gli dico di Lorenzo Musetti. Per entrambi la promessa silenziosa di farlo ancora, prima o poi.
Lavazza ha fatto i suoi primi passi nel mondo del tennis nel 2011 scegliendo proprio Wimbledon come primo torneo: un connubio tra due icone di tradizione, eccellenza e ritualità. Questa partnership ha segnato l’inizio di un percorso che ha visto Lavazza espandersi negli anni in tutti principali tornei del mondo, da Parigi a New York, da Madrid a Shanghai.
Nel 2025, Lavazza celebra con orgoglio 15 anni di presenza a Wimbledon, dove continua a portare l’autentica coffee experience italiana.
Elena Marinelli abita a Milano, è autrice di Il terzo incomodo (Baldini + Castoldi), Steffi Graf (66thand2nd) e di due racconti per le raccolte Rivali (Einaudi) e Fondamentali (66thand2nd). Tra le sue collaborazioni: Ultimo Uomo, Undici, Lucy - Sulla cultura e ilLibraio.it.
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