Il ritorno del re – Mezza Riga n. 1
A Roma vedremo lo stesso Sinner di tre mesi fa? Per quanto breve, uno stop cambia la persona e l’atleta, ci racconta la storia degli altri numeri uno, da Andre Agassi a Serena Williams
Testo di Giorgia Mecca
Illustrazione di Giulia Neri
Si tratta soprattutto di corpi. Corpi ammaestrati, asimmetrici, votati alla performance. Corpi sproporzionati, massacrati, usurati per tutto il tempo per cui dura la gloria. Corpi obbedienti, ottusi, ripetitivi.
Ci si ricorda più volentieri dei circoletti rossi di Rino Tommasi, la fantasia applicata al tennis in certi rovesci lungolinea a una mano con i piedi sospesi per aria e le leggi della fisica che diventano irrilevanti, ma la realtà è che ai fini del gioco sono molto più utili due gambe che quando colpiscono la pallina stanno ancorate per terra e agiscono per forza di inerzia e fanno ciò che sono state programmate per fare, mandare di là la pallina una volta in più dell’avversario.
Hanno vita breve questi corpi, se per vita si intende la carriera degli atleti. Sono due volte mortali. Spesso, poi, queste carriere vengono interrotte all’improvviso, sono costrette a stop forzati in assenza di garanzie sul futuro. Infortuni, soprattutto, e interventi chirurgici. Ma anche coltellate, squalifiche, gravidanze, crolli psicologici, non poterne più di tennis e solo tennis, quando quel corpo ancora ce la farebbe, ma è la mente a essere esausta. Il corpo, a un certo punto, te la farà certamente pagare ma finché riesce esegue gli ordini, per esaudire il desiderio di tutti i bambini e di tutti i campioni: “Ti prego, fammi giocare ancora un po’”.

Aveva sedici anni Monica Seles quel giorno di giugno 1990 in cui vinse il Roland Garros battendo in finale Steffi Graf. Occhi adolescenti che diventavano piccolissimi quando stava per colpire la pallina, dritto e rovescio a due mani, antico retaggio di quando era bambina e la racchetta troppo pesante per le sue braccia ancora sottili e non traumatizzate dalla violenza di certi impatti. Non aveva paura di niente: “Forte sulle righe, Monica”, “Signorsì”. Otto Slam in quattro anni. “Mi sentivo invincibile”, dice la Monica di oggi a proposito di se stessa adolescente. Poi arriva il 30 aprile 1993, lo spartiacque di una vita: sugli spalti di un torneo di Amburgo, ad assistere ai quarti di finale, c’è Günter Parche, un fan ossessionato da Steffi Graf e intenzionato a interrompere la carriera di Seles. La colpisce con un coltello lungo 23 centimetri sulla schiena; per fortuna lei è chinata a prendere una bottiglietta d’acqua e la lama penetra per soli 2. È viva, ma si ferma. Aveva un posto nel mondo, il campo, non ne conosceva altri. Tutto passava attraverso il tennis, ogni emozione provata l’aveva provata giocando. “Quando giocavo mi sentivo al sicuro, le mie ansie sparivano. Improvvisamente non facevo altro che piangere e piangere”, racconta nella sua autobiografia. La chiamavano la Belva di Novi Sad, ma ora è ko. Il tennis va avanti, non la aspetta, si dimentica di lei. E lei comincia a mangiare, ingrassa di quasi 20 chili, diventa un’altra donna con un altro corpo. Due anni dopo torna in campo. Con una cicatrice sulla schiena non potrà mai più sentirsi invincibile. “Forte sulle righe” è un consiglio che vale quando hai diciott’anni, quando sei giovane e incosciente e ti senti eterno, e forse un po’ lo sei. Prima di dire addio, nel 2003, vince un altro Slam, il nono, l’ultimo, in Australia nel 1996. Un giorno ha detto: “La mia carriera è stata un viaggio lungo, doloroso e impegnativo. Ma non farei a cambio con niente. Mi ha reso la donna che sono oggi”.
Il 10 novembre 1997, a 27 anni e con tre titoli Slam conquistati, Andre Agassi è il numero 141 del ranking mondiale. Sono lontani i tempi in cui il ragazzo dalle parrucche irriverenti faceva sognare il tennis a stelle e strisce contribuendo alla nascita di una delle rivalità più belle di questo sport, quella con Pete Sampras. Era stato il numero uno del mondo per trenta settimane, adesso si aggira nella terra di nessuno. Ci aveva messo una vita per diventare il migliore, possibile che possa finire tutto in una manciata di stagioni? I ragazzini inspiegabilmente vogliono ancora vestirsi come lui, i suoi avversari quando sanno di doverlo affrontare sorridono. Come rivelerà in seguito per mezzo di un bestseller, odia il tennis, la macchina sparapalle, suo papà, la dedizione che richiede, la poca curiosità a cui ti obbliga. Veni, vidi, vici: tutto dentro un campo da tennis, come se il mondo fosse un infinito e inutile contorno. In quel momento, il punto più basso della sua carriera, il male al polso sembra essere l’ultimo dei suoi problemi e lo è. La crisi vera deriva da un matrimonio con Brooke Shields che sta per finire, dalla noia di certe giornate trascorse in albergo, dall’assenza di senso. E poi, soprattutto, dal consumo di metanfetamine. La Wada non esiste ancora, i medici della ATP però analizzano le sue urine e trovano tracce di droga. In caso di condanna la squalifica è di tre mesi. Agassi è un tennista finito, odiava il tennis, ma ora che il tennis ha chiuso con lui si accorge che gli mancherà. Riparte dalla giungla, i circuiti Challenger, il gradino più basso del professionismo. Si vergogna? Da morire, ma ricomincia da capo. Ed è vero quello che si dice, che le vittorie si dissolvono in un istante, sono i fallimenti a rimanerti appiccicati addosso. È un fatto fisico: i successi non lasciano traccia sulla pelle, al massimo un sorriso; le cicatrici sono ciò che resta delle nostre cadute. Agassi ritorna, le risposte al servizio sono acciaccate ma è questione di tempi e di allenamento. Il problema è più intimo ed è che il braccio trema, e il braccio trema quando la testa va in tilt. Non è mai una questione di colpi ma di tempismo, il momento in cui decidi di giocarli, quei colpi. Devi essere lucido, ma la lucidità è un regalo dell’esperienza e anche quella svanisce se non la si esercita. Come i trionfi, le finali Slam vinte, la vetta del ranking, il Kid di Las Vegas, quel poco che ne è rimasto. “Parliamo della paura: la paura non passa mai?”, chiede un giorno Agassi a J.P., un pastore diventato il suo mentore. “Spero di no”, gli risponde lui. “Non vorrei vederti senza paura”. La paura produce adrenalina e durante un match l’adrenalina si mescola alle endorfine, insieme producono un analgesico naturale che anestetizza il dolore, in alcuni momenti i più fortunati sperimentano la trance agonistica. Le braccia di Agassi smettono di tremare, vincerà ancora cinque prove dello Slam. Tornerà numero uno del mondo nel 1999 e nel 2003, prima di ritirarsi agli US Open del 2006. Nel 1998 al Roland Garros perde al primo turno contro Marat Safin e si fa male alla spalla. Impingement, la diagnosi del medico, pressione sui nervi. “Non darò mai più per scontato il privilegio di farmi male su un campo da tennis”, commenta l’americano. Forse è la verità o forse no, ma comunque è bello crederci.
In Infinite Jest, David Foster Wallace scrive: “Siete pregati di imparare a dormire con una scottatura perpetua”. E subito dopo: “Trattate le vostra ginocchia e i vostri gomiti con ogni ragionevole cura: staranno con voi a lungo”. La persona più importante della carriera di Rafa Nadal probabilmente è stata Titín, ovvero il suo fisioterapista Rafael Maymó. A lui il compito, prima e dopo ogni match, di massaggiare i muscoli dello spagnolo. A volte prima del trattamento, quando sapeva che avrebbe potuto fargli male, gli consegnava un asciugamano. “Mettilo in bocca e quando premo mordi, ti aiuterà”. Conoscevano entrambi la storia delle endorfine e degli analgesici naturali. E poi la cura, i cerotti, gli antiinfiammatori, le terapie, mangiare bene e dormire meglio. Ma è come un bicchiere d’acqua in mezzo al deserto dopo 23 anni passati a massacrare palline, corse e rincorse, accelerazioni violente, stringere la racchetta tra le mani così forte da farle sanguinare. E poi le rotazioni innaturali, il dritto colpito muovendosi all’indietro, tutto con una smorfia perenne sul viso, solo impeto e istinto, non risparmiarsi mai, come se quella schiena fosse capace di sostenerlo all’infinito. Ciò che Rafa Nadal ha inflitto al suo corpo, rimodellato, martoriato in nome del tennis e divorato dal tennis, è stata la cura per rimanere là o il suo esatto contrario? In uno dei suoi ultimi tentativi di come back prima dell’addio, agli inizi del 2024, dopo essere stato costretto a un nuovo stop and go, questa volta di tre mesi, afferma: “Non so come sto, ma la cosa importante è dove sono. E sono qui. È una buona notizia”. Il giocatore si trova a Las Vegas per un’esibizione, tennis minore, ma è pur sempre un campo. Gli chiedono che ambizioni abbia. “Uscirne indenne”. Ma che risposta è? Il tennis è un gioco o è diventato un supplizio?
“Vivrò libero dal dolore?”, chiede Andy Murray dopo l’ennesimo tentativo mal riuscito di tornare nel circuito. Ha provato tutto: riabilitazione, mesi dentro una piscina, una protesi, un’anca di metallo. La sua preoccupazione riguarda la vita in generale. Non più il tennis, ma sapere se riuscirà a salire e scendere le scale senza provare ogni volta una fitta. Bill Knowles, l’ultimo guru a cui si rivolge gli risponde immediatamente: certo che non vivrai libero dal dolore, nessun atleta ci riesce, soprattutto dopo i trent’anni. Gli interventi chirurgici segnano sempre una svolta nelle carriere degli atleti. Prima di ogni operazione la domanda rivolta ai medici è sempre la stessa: Tornerò come prima? Scordatelo. Tornerò più forte? Tornerai diversa. Questa la risposta che hanno dato a Maria Sharapova dopo una diagnosi di tendine lacerato e necessità di operazione alla spalla destra. Colpa del servizio, una delle sue armi più potenti. Come farò senza? Chiede. Ti allenerai in risposta, le rispondono come se fosse scontato per il suo corpo riadattarsi e quasi certamente lacerarsi in un punto ancora diverso in nome del tennis. Il 7 marzo 2016 convoca una conferenza stampa a sorpresa in un hotel di Los Angeles. I giornalisti si aspettano l’annuncio del ritiro. Lei smentisce subito: “Non dirò addio in una sala di un albergo con una moquette così orrenda”. L’ex numero uno del mondo annuncia di essere risultata positiva a un controllo antidoping, la sostanza a cui si fa riferimento è il meldonium, un medicinale inserito nell’elenco dei farmaci proibiti qualche settimana prima. Sharapova viene squalificata per due anni, ridotti a un anno e tre mesi in corso di appello. “È strano, prima di tutto questo pensavo solo al traguardo, a come sarebbe finita, alla mia uscita di scena, adesso non più. Ora penso solo a giocare. Finché ce la faccio. Al massimo delle mie possibilità”. Il proposito è nobile, ma anche l’ostinazione si logora, invecchia, chiede una tregua. Sono passati ventotto anni dall’ultima volta che gliene aveva concessa una. Nel 2020, a trentatré anni, annuncia il ritiro con una lettera a Vogue in cui scrive: “Dedicando la mia vita al tennis, il tennis mi ha offerto una vita. Una vita che mi mancherà ogni giorno”. Ritirandosi dal tennis Maria Sharapova si riappropria del proprio corpo, un corpo che si libera dell’agonismo, dalla necessità autoimposta ma non solo di essere vincente, efficace, aggressiva, arrabbiata, cattiva. Ora a quel corpo non viene più richiesto niente. Respira, adesso puoi respirare e basta.
Cosa farai se dovessi vincere il Grande Slam, chiedono a Serena Williams nell’agosto 2015, quando le manca un titolo, quello di casa, lo US Open, per conquistare tutti i major della stagione, l’ultimo traguardo che si era imposta. “Farò un lungo respiro e poi scomparirò”. Il personaggio più rilevante per il tennis femminile e forse per lo sport del terzo millennio, la donna che ha impresso una nuova velocità al gioco, che ha cambiato le regole anche estetiche della WTA, la donna che non si è mai accontentata di vincere e basta ma che ha sempre avuto il desiderio di dominare (319 settimane in cima al mondo, 186 consecutive), è stanca, svuotata. Le mancano gli ultimi cento metri, ma lei è esausta. “E poi scomparirò”. Scomparendo si sarebbe portata via anche il suo corpo, offerto in sacrificio al padre e quindi al tennis prima ancora di venire al mondo. Il suo corpo, lo strumento che l’ha sempre definita, nel bene e più spesso nel male: eccessivo, poco ortodosso, spaventoso, mascolino, provocante nel posto sbagliato. Ingombrante. Vincente. È grazie a lui se in carriera è stata capace di vincere 23 prove dello Slam, l’ultima, gli Australian Open del 2017, incinta di sei settimane. Durante il parto rischia di morire. Ritorna nel circuito dopo oltre un anno, un corpo nuovamente trasformato, questa volta dalla maternità, e una testa dentro cui il tennis non è più il centro. “Dopo che sei nata tu, guardavo la mia pancia e pensavo fosse bella, perché lì dentro avevi vissuto tu”, scrive a sua figlia Olympia. Smette di allattare quasi subito su consiglio del suo allenatore Patrick Mouratoglou: “Devi farlo, se vuoi tornare a essere competitiva”. Lei accetta ma non è convinta. La maternità le ha fatto perdere gli equilibri, il centro del mondo non è più lei e il suo tennis, il centro è sua figlia. Scendi in campo per giocare la finale di Wimbledon e può capitare di chiederti, con il fiatone e dieci chili in più del necessario: ma cosa ci fa il mio corpo ancora qui, di bianco vestito? Si ritira nel 2022, ventitré anni dopo la vittoria del primo Slam, a New York. In quel momento, il corpo di Serena, sempre in stato di guerra, può finalmente andare in pace.
È la presenza dentro il campo che definisce gli atleti, corpi sublimi che in una manciata di stagioni diventano vecchi, rallentati, inadatti allo scopo, alle grandi imprese per cui sono stati plasmati. Il tennis è uno sport traumatico, per questo i box dei giocatori sono così affollati, non basta un fisioterapista, serve un preparatore atletico e un mental coach, serve che la memoria muscolare venga sollecitata ogni giorno. Senza allenamento il cervello può dimenticarsi anche delle cose più elementari, colpire la pallina al momento giusto, come si vince un match.
È il marzo 1989, Thomas Muster è il numero 7 del ranking mondiale. Ha ventidue anni e poche settimane prima ha conquistato la sua prima semifinale in uno Slam, agli Australian Open. Nella seconda parte della sua carriera diventerà King of Clay (prima che un altro mancino, Rafa Nadal, gli ruberà il soprannome), ma la prima si interrompe in modo brusco in mezzo a una strada. L’austriaco ha appena vinto la semifinale al torneo di Miami contro Yannick Noah. Il giorno dopo lo attende Ivan Lendl per il titolo. Un guidatore ubriaco lo travolge mentre sta estraendo il borsone da tennis dal baule. La gamba sinistra rimane intrappolata dentro la macchina, saltano tutti i legamenti. E il tennis? Dimenticatene, gli consigliano. Sta fermo per sei mesi, poi ricomincia ad allenarsi grazie a un marchingegno progettato dal suo coach e diventato uno spot motivazionale per tutti quelli che credono che se vuoi, puoi. Comincia ad allenarsi con la gamba infortunata distesa su una panca e l’altra seduta. Così ricomincia a colpire le palline, a sentirsi di nuovo un tennista. Nel 1995 vince il Roland Garros, l’anno dopo diventa il tennista più forte del mondo.
Nel 2017, a Melbourne, il mondo era pronto ad accogliere l’ombra di un grande nome, l’estremo tentativo di non dire addio di Roger Federer, il più grande. Qualche mese prima, lui che si era mantenuto integro fino ai trentasei anni, si era rotto il menisco facendo il bagno alle sue due figlie. Anche così possono finire le carriere, scivolando sulla vasca. In quei mesi lo si è visto crollare sull’erba di Wimbledon, qualcuno ha scritto: “Adesso basta, Roger”. Cinque mesi di riposo totale, la televisione spenta, il tennis che si prepara a salutare l’esperienza religiosa che lo svizzero ha fatto vivere a tutti gli appassionati per due decenni. Durante l’off season, prima dell’inizio del 2017, il suo diciannovesimo anno da professionista, il suo team si accorge che sta giocando bene: “Se continui così, puoi anche pensare di vincere in Australia”. Bella battuta, risponde lui. Anni dopo ha dichiarato che ciò di cui ha avuto più bisogno per vincere il suo Slam numero 19 era la fiducia del suo team, “una fiducia segreta”. Per esempio le parole di Ivan Ljubicic, uno dei suoi coach, a cui lo svizzero si è rivolto prima del match contro Rafa Nadal: “Devi convincermi che sono più forte di lui”.
Ian McEwan scrive che ogni persona è, tra le altre cose, un oggetto facile da rompere e difficile da riparare. Ce ne accorgiamo soprattutto quando ci viene sottratto il nostro posto nel mondo, quando quel mondo procede senza di noi, rimasti chiusi fuori a guardare. Stranieri nell’unico territorio conosciuto, e quando torni, se torni, ricominci da zero.
Anche se il corpo non ha ceduto, la testa sarà la stessa di quel 26 gennaio 2025, il giorno della finale degli Australian Open? Senza match addosso da oltre cento giorni ci si può ancora considerare il giocatore più forte del mondo? E soprattutto, tu come ti senti, ti senti ancora il numero uno? La mentalità di cui tutti parlano, vincente non per grazia divina ma per sacrificio e dedizione, tornerà in campo insieme a te? Quanto tempo ci vuole prima di sentire la pallina, prima di comprendere il momento, prima di trovare il coraggio di un altro dritto lungolinea con cui chiudere un match, con cui vincere uno Slam? Il 9 maggio, il giorno in cui è previsto il ritorno in campo di Jannik Sinner, saranno passati 103 giorni dall’ultimo match giocato dall’azzurro. Tre mesi senza vincere o perdere un punto. Tre mesi in cui il tennis è andato avanti senza di lui. Tre mesi a percepire un vuoto, incolpevole. Dovrà ritrovare appoggi, fiducia, fiato. La sensazione che si prova prima di una palla break. Tutto perso? Tutto da riconquistare. Jannik Sinner tornerà quello di prima? La domanda è legittima e la risposta probabilmente è no, Jannik Sinner tornerà diverso, e in fondo è stato lui stesso a dircelo, raccontando di aver pensato al ritiro. Ma il gioco, quello non cambia. E neppure quel rettangolo dove abbiamo imparato tutto quello che sappiamo, le persone che siamo e che non vogliamo essere. Forse per quello ritorniamo sempre lì dentro. Nonostante il dolore che provoca, le coltellate, le anfetamine; nonostante la depressione, il fiato corto e gli attacchi di panico. Nonostante la paura; anzi, grazie alla paura. Perché quel gioco ci piace e senza non saremmo più noi.
Giorgia Mecca è nata a Torino nel 1989. Gioca a tennis da quando ha memoria, e quando non gioca lo guarda. Collabora con Sky Sport, il Foglio e il Venerdì di Repubblica. Ha scritto un libro: Serena e Venus Williams, nel nome del padre (66thand2nd).
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bellissima iniziativa, per uno sport che ti prende la testa, la coda e tutto quello che c'è in mezzo (cit.). Sul tema del fisico stressato, proprio oggi ho letto di Paula Badosa che lamenta problemi alla schiena e già sa che si ritirerà "giovane" dall'attività agonistica, e soprattutto un bellissimo post di Caro Garcia a proposito delle aspettative del circuito e della scelta della singola atleta di ascoltare il proprio corpo anziché l'ambiente circostante. Un caro saluto.