Il terzo incomodo – Mezza Riga n. 20
Arriverà qualcuno a inserirsi nella rivalità tra Sinner e Alcaraz? Il 2026 sarà l’anno in cui esploderà uno dei terribili ragazzi pronti a incrinare questa specie di storia d’amore?
Testo di Giuliano Malatesta
Illustrazione di Emanuela Carnevale
“Lui è incline alla megalomania, io alla malinconia”, disse una volta Scott Fitzgerald a proposito del suo collega Ernest Hemingway. Ci provarono a essere amici questi due mostri sacri della letteratura del Novecento, e per un periodo la cosa ha anche funzionato, quando Papa era un giovane giornalista di stanza a Parigi ancora alla ricerca della sua espressività narrativa, mentre l’autore de Il grande Gatsby era già il romantico scrittore che si pavoneggiava di aver dato un ritmo all’età del jazz. Poi Hemingway aveva tirato fuori dal cilindro il suo primo benedetto romanzo, quel capolavoro di Fiesta, il libro che aveva introdotto i lettori al ventesimo secolo, cambiando quel ritmo, e improvvisamente Fitzgerald si era trasformato da stimato consigliori in niente di più che un perpetual drunk.
La storia ci ha insegnato che rivalità e amicizia possono andare a braccetto solo in particolari circostanze e per lassi di tempo non eccessivamente lunghi, perché di fondo restano incompatibili. La prima è quella che ti spinge a migliorarti in una competizione senza limiti, e dunque si basa anche sulla consapevolezza della bravura dell’altro, sulla sua accettazione: a suo modo è una storia d’amore. La seconda, invece, rappresenta un sentimento troppo nobile per reggere il peso di una contrapposizione esasperata. Vale per la letteratura come per il tennis, discipline con diversi punti di contatto: la solitudine, naturalmente, e persino un certo tipo di suono, se ci è concessa la licenza di paragonare la musicalità di un verso o di una frase a quella di uno scambio.

Della saga tra Federer e Nadal è stato scritto di tutto, fino al racconto edulcorato di un’amicizia di vecchia data. Basta rivedere la finale di Wimbledon 2008, forse la partita più epica della loro rivalità sportiva, vinta dallo spagnolo dopo cinque ore di gioco su un Centrale in preda all’oscurità. Potrete osservare la cattiveria, il rispetto, l’agonismo, la rabbia, l’eleganza ma non l’amicizia. Ci sono rivalità che nascono dal conflitto e altre che si basano sul riconoscimento. Come è avvenuto nel caso dei due ragazzi terribili che stanno distruggendo il tennis mondiale. Una magnifica rivalità caratterizzata da una contrapposizione di caratteri, uno misurato e sobrio, nel modo di essere come nel linguaggio verbale, l’altro irruento e più luminoso, ma ovviamente anche di stili: la potenza contro la naturalezza, la chirurgica linearità contro l’esplosiva esuberanza, la ricerca del totale controllo contro il desiderio di anarchia.
Quello di cui i due avrebbero bisogno è proprio un terzo incomodo, un guastatore alla Djokovic che intervenga dal nulla a turbare i loro tranquilli sogni di gloria. È stato Rafa Nadal, nei giorni scorsi, a evocare l’arrivo di un nuovo, giovane, intruso: “Credo che a Sinner e Alcaraz manchi qualcuno che li metta un po’ sotto pressione, perché hanno fatto la differenza rispetto a tutti gli altri e in qualsiasi versione possono battere chiunque, finché non incontrano l’altro”.
Difficile dargli torto. La questione è che l’italiano e lo spagnolo sono cresciuti e maturati fin troppo velocemente, facendo il vuoto dietro di loro ed evidenziando il gap con il resto di una truppa fatta di qualche comprimario, finito in top 10 per gli astrusi meccanismi che regolano la classifica, giovani che sembrano già vecchi da un pezzo e promettenti ragazzi che giocano un bel tennis ma faticano a rimanere in scia. D’altronde, come si può immaginare di giocare un diritto migliore di quello di Carlitos o un rovescio bimane perfetto come quello di Jannik? Servirebbe piuttosto un cambio di impostazione tennistica, accompagnata da una personalità in grado di reggere il peso di questo cambio. Ma dove cercarla?
Confesso di avere un debole per quel bad boy danese che è Holger Rune, un giocatore il cui straordinario talento è direttamente proporzionale al grado di antipatia. Davanti alle sue scenette in campo da bambino viziato, ai finti medical time out per crampi che compaiono miracolosamente ogni qualvolta ci sia da recuperare un break, salvo poi svanire alla velocità della luce il game successivo, o a comportamenti sempre ai limiti del regolamento, anche uno come il francese Corentin Moutet, che quando non gioca incide versi del tipo “non sento più la pressione, sono a due dita dalla depressione”, potrebbe guadagnarsi facilmente l’appellativo di simpaticone. Però, va detto, Rune è un gran bell’antipatico. Dicono che uno dei suoi principali problemi sia quello di non saper accettare la mediocrità. Quando perse una finale all’età di sette anni, rifiutò di alzare il trofeo, corse via in lacrime nella sua cameretta, strappò dal muro il poster del suo (ex) idolo Rafa Nadal e giurò al mondo che da quel momento avrebbe fatto il tifo solo per Roger Federer. “È ossessionato dal colpo perfetto e non si fermerà”, ha detto una volta la madre a L’Equipe. Chissà quali altre ossessioni devono ondeggiare ad alta velocità dentro la testa di questo confuso ragazzo che non ha mai raggiunto una semifinale Slam ma è capace, quando vuole, di giocare un tennis fenomenale, l’unico giocatore del circuito che non ha nulla da invidiare, a livello di colpi, ai primi due giocatori del mondo. D’altronde ha già dimostrato di poterli battere: due volte Alcaraz su quattro incontri, l’ultima quest’anno in finale a Barcellona, e altre due Sinner su cinque incontri, sempre molto combattuti. Forse Rune, che ha solo 22 anni, non riuscirà mai a diventare numero 1 del ranking, per quello oltre a un enorme talento servono altre caratteristiche come abnegazione, costanza, disciplina, che potrebbero non far parte suo DNA, ma perché mai un giocatore del suo livello non dovrebbe vincere uno o più Slam? Per farlo avrebbe solo bisogno, si fa per dire, di spazzar via un po’ di confusione e magari anche di smetterla, come gli disse una volta Stan Wawrinka, “di comportarti in campo come un bambino”. Chissà che il serio infortunio subìto al tendine d’Achille non possa trasformare una disgrazia in una nuova opportunità. Appena terminato l’intervento chirurgico è tornato al lavoro e ha iniziato a condividere i primi i passi del suo percorso di riabilitazione. “Keeping the rehab fun”, ha scritto sui suoi profili social, in un video in cui lo si vedeva iniziare a colpire la palla da seduto o in piedi ma appoggiato al terreno con una gamba sola. Un po’ alla Rune. Ma è prematuro per capire quando tornerà, e soprattutto se riuscirà a fare un po’ di ordine nella sua vita.
In un’ipotetica libera scelta di terzi incomodi è doveroso inserire l’ultimo dei predestinati, il classe 2006 Joao Fonseca, un brasiliano dai modi compassati, ma solo fuori dal campo, che non pochi pronosticano come il futuro di questo sport. Dietro quelle gambe smilze, il sorrisetto timido e il look da bravo ragazzo che sembra uscito più da un collegio dei salesiani che da un circolo tennistico di Rio de Janeiro, Fonseca ha già dimostrato di saper giocare un tennis di altissimo livello, potente e molto aggressivo, soprattutto dalla parte del dritto, ma di sapersela cavare egregiamente anche con le variazioni. E di avere, per la sua giovane età, una tenuta mentale sbalorditiva. Ne sa qualcosa un incredulo Andrey Rublev, che al primo turno dello scorso Australian Open fu letteralmente travolto dalla forza straripante del ragazzino brasiliano, che proveniva dalle qualificazioni ed era (sic) alla sua prima apparizione in un tabellone Slam. Roba da predestinati. Chi ha visto quella partita sa di cosa sto parlando: il russo, al tempo numero 9 del mondo, dovette assistere, impotente, da comprimario alla tempesta perfetta. Quel giorno, viene da aggiungere, chiunque avrebbe fatto fatica a uscire dal campo vincitore contro Joao. Poi, come è giusto che sia per un ragazzo agli inizi, sono arrivati i momenti difficili e i fisiologici alti e bassi, che non gli hanno comunque impedito di vincere alla sua prima stagione nel circuito ATP due tornei, sulla terra rossa e sul veloce indoor, a dimostrazione che il suo gioco si adatta bene a differenti superfici, e di chiudere l’anno in top 30. Not that bad. Ognuno ha i suoi tempi, non esiste un apposito calendario per progredire. È vero che Alcaraz alla sua età aveva già alzato il trofeo a New York, ma è altrettanto vero che Sinner, complice anche una stagione viziata dal Covid, si era fermato al numero 37 del mondo. Ma non ci sono dubbi che una volta imparato a perdere, fondamentale in questo maledetto gioco, e limate alcune imperfezioni, lo troveremo dove il suo tennis merita di stare.
A voler essere pignolo dovrei fermarmi qui. Quei due allo stato attuale appaiono come dei marziani, troppo distanti dal resto della truppa. What about Ben Shelton?, mi ha suggerito un caro amico. Non scherziamo, ho risposto quasi infastidito. Possiede alcuni colpi fantastici, certo, ma complessivamente non ha il tennis per raggiungere quel livello. Not yet. Me ne assumo tutta la responsabilità.
Invece, considerato che qui si sta provando a delineare il futuro, è il caso di menzionare due Next Gen. Il primo è il ceco Jakub Mensik, un tipo riservato, ambizioso, consapevole dei suoi mezzi e che ha chiuso l’anno al numero 19 del ranking, dopo aver vinto il Master 1000 di Miami battendo in finale il suo eroe da bambino, Novak Djokovic. È ancora un diamante grezzo ma gioca a tennis con un’incoscienza disarmante. E dunque, promette bene. Il secondo si chiama Learner Tien, californiano di origini vietnamite, già considerato da molti il nuovo messia del tennis americano. Mancino naturale, buon anticipo e gran controllo della palla, è allenato da Michael Chang e in quest’ultimo anno ha collezionato diversi scalpi di valore, da Rublev a Zverev fino a Medvedev. “Detesto giocare contro di lui – ha detto il russo dopo una seconda sconfitta – a parte i Big 3, Sinner e Alcaraz, è forse l’avversario più forte che abbia mai affrontato”. Un signor complimento, forse un tantino esagerato.
Infine, un po’ per simpatia, un po’ per fiducia, ci tengo ad aggiungere il nome e il volto del ragazzone inglese del Sutton, Jack Draper. Un simpatico destrorso naturale che gioca da mancino, si muove sorprendentemente bene anche lateralmente considerata la sua stazza, ha un servizio fulminante, un diritto in continuo miglioramento che sa far male e un rovescio bimane più che affidabile, “che posso colpire a occhi chiusi”. Prima dell’infortunio al braccio sinistro che lo ha costretto a fermarsi per la seconda parte della stagione aveva raggiunto la semifinale allo US Open e vinto il Master 1000 di Indian Wells, sconfiggendo Alcaraz, prendendo a pallate Rune in finale ma soprattutto dimostrando che è in grado di giocare un ottimo tennis, vario ed efficace, anche su superfici notoriamente più lente come quella del deserto americano. Draper è forte, competitivo, intelligente. Gli manca forse un po’ di abitudine a giocare lunghe partite da 3 set su 5 e l’esperienza necessaria nei momenti decisivi. Ma quella arriverà. Quando chiesero a Churchill qual era il segreto che gli permetteva di bere così tanto champagne, iniziando di prima mattina, rispose senza pensarci un attimo: “Experience”.
Giuliano Malatesta è nato a Roma nel 1972. È convinto di avere il diritto mancino alla Rafa Nadal. Ha lavorato all’Ansa, la CBS, Il Messaggero, Il Venerdì di Repubblica, Il Manifesto. È autore per Arcana, Giulio Perrone Editore, 66thand2nd. Il suo ultimo libro è A Pamplona con Ernest Hemingway.
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