La lotteria degli Slam – Mezza Riga n. 4
Lontano dallo scintillio dei campi principali dei grandi tornei, va in scena la vita dei tennisti che navigano le acque basse della classifica: una realtà molto più dura di quanto si possa immaginare
Questo numero di Mezza Riga è realizzato grazie al sostegno di Lavazza.
Testo di Roberto Scarcella
Illustrazione di Paolo Metaldi
Carole Monnet, numero 231 al mondo, ha appena vinto 7-6 il suo primo set in uno Slam contro la britannica Katie Boulter, quasi duecento posizioni in classifica più in alto di lei. Siamo al Simonne Mathieu, lo stadio del Roland Garros circondato da un giardino botanico e dedicato alla tennista che negli anni Trenta – tra singolare e doppio – ha vinto per dieci volte il torneo parigino. Monnet, francese anche lei, è entrata nel tabellone principale dopo aver superato tre turni di qualificazione. In caso di vittoria e passaggio al secondo turno, a Monnet spetterebbero 117 mila euro, vale a dire il doppio di quel che ha guadagnato finora in tutto il 2025. Un quinto di tutto quel che si è messa in tasca da quando, ormai sette anni fa, è diventata una tennista professionista.

Sotto per 3 game a 1 nel secondo set, con Boulter al servizio, Monnet si ritrova con uno smash facile facile che le permetterebbe di recuperare il game perduto in battuta, talmente facile che l’avversaria nemmeno prova a opporsi. Però manca l’impatto in modo quasi comico – come potremmo fare, anzi, abbiamo fatto (e faremo ancora) noi, dilettanti della racchetta –, ma la parabola della pallina è così lenta e alta che ci sarebbe comunque modo di recuperare. La francese corre all’indietro, colpisce la palla, ma non abbastanza forte da superare la rete. Segue un momento di silenzio imbarazzato sugli spalti. Poi lei scoppia a ridere e con lei il pubblico. Da quel momento, Monnet non ci crede più, si sgonfia definitivamente e perde 6-1 6-1, strappando quindi all’avversaria solo uno dei dieci game successivi. A crederci, al posto suo, era rimasto solo un tifoso, l’unico che – tra un punto e l’altro, prima di ogni servizio – continuava a urlare “Allez Carole” con cadenza sempre uguale, quasi robotica e ipnotica, come se avesse un timer interno, impossibile da ignorare, fino a far spuntare qua e là degli emulatori-imitatori (alcuni, in effetti, bravissimi) in vena di prese in giro.
Terminato l’incontro, giocatori e giocatrici finiscono di solito inghiottiti nella pancia dello stadio oppure scortati fuori dai campi più piccoli da un gruppo di energumeni vestiti di nero (così è successo a Emma Raducanu e al duo Paolini-Errani), messi lì per disperdere la folla. Monnet invece te la ritrovi in mezzo alla gente, a pochi metri da un chioschetto per gli aperitivi, mentre firma autografi, si fa scattare foto con i bambini e ripete che è “felice” del suo percorso passato per le qualificazioni e non facilitato – come fanno notare un paio di giornalisti in vena di polemiche – dall’assegnazione di una “wild card”, come accaduto per molti altri francesi. Vale a dire l’invito che ti porta direttamente nel tabellone principale, assegni compresi.
Vista da vicino, Monnet può sembrare una giocatrice da circolo finita in un posto più grande di lei, con ai piedi le stesse scarpe che potremmo comprarci noi al centro commerciale e uno sponsor tecnico irriconoscibile che non è nemmeno un vero sponsor tecnico, visto che le iniziali, CM, sono le sue. Si tratta di una divisa autoprodotta per necessità (e per risparmiare), non per marketing (e per guadagnare) come accade per loghi la cui riconoscibilità va oltre i confini del tennis, come RF e JS. L’altro marchio che ha sulla maglietta – Alès Agglomération – pubblicizza un’area periferica della Francia, un’aggregazione di comuni di un’area interna nel sud del Paese da dove lei proviene e dove si allena. Un politico locale, il presidente dell’unione comunale, ha anche pubblicato su Facebook un video mentre fa due scambi con lei: il campo in mateco slavato, sconnesso, radi ciuffi d’erba che spuntano tra i giunti.
Non si può non notare la differenza con chi l’ha battuta, che – pur non appartenendo alla vera élite del tennis – indossa lo stesso completo griffato della numero uno Aryna Sabalenka e lo stesso modello di scarpe di Raducanu, l’ex campionessa Slam incapace di ritrovarsi dopo il trionfo di quattro anni fa agli US Open, eppure talmente glamour da essere ancora popolarissima tra gli sponsor, e quindi ricchissima.
Emma Raducanu è un ottimo esempio di come la vita di chi fatica a farsi largo tra i primi turni dei grandi tornei può cambiare una volta per tutte. Nel 2021, la britannica era la numero 150 del mondo quando, partendo proprio dalle qualificazioni, vinse a New York (unico caso, finora, nell’èra Open, maschi compresi), salendo di colpo al numero 23 della classifica, intascando un montepremi di 2 milioni e mezzo di dollari e firmando all’istante contratti di sponsorizzazione a molti zeri.
A maggio, nelle settimane precedenti al Roland Garros, Monnet ha invece giocato due semifinali nei tornei minori di Trnava e Saint-Gaudens, incassando 5.366 euro lordi. Cifre che, il più delle volte, nemmeno bastano a coprire le spese del viaggio: a Saint Gaudens, facilmente, sarà arrivata in auto o in treno visto che da Alès sono circa quattrocento chilometri; mentre per Trnava, Slovacchia, 65 mila abitanti a cinquanta chilometri dalla capitale Bratislava, è pensabile una trasferta economicamente più impegnativa. Questa è la vita di chi prova a rimanere a galla nel circuito fuori dalla baia protetta della Top 100 (da due anni esiste un minimo garantito di 300 mila dollari, che scende a 200 mila per chi resta entro la Top 175, e a 100 mila per chi è nei primi 250 del ranking).
Giocare un primo turno del Roland Garros, anche dovesse restare l’ultimo, può bastare a riempire il cuore d’orgoglio e le tasche con premi altrove inaccessibili, perfino inanellando serie infinite di successi consecutivi – tra l’altro improbabili – sui campi minori. Proviamo a dare la misura: bisogna vincere circa dieci tornei W75 come quello di Trnava per guadagnare gli stessi 78 mila euro di chi si ferma già al primo turno del Roland Garros. È la vita di chi naviga nel World Tour ITF, la serie B del circuito principale frequentata da chi sgomita nelle acque meno nobili della classifica.
Poco prima di andare a Wimbledon e poi ritirarsi, nel 2018, un altro tennista francese, Stéphane Robert, aveva detto a L’Équipe: “Sono stato il numero 50 del mondo, ora sono il 157 e vado a fare le qualificazioni dove prendo 5.000 euro a vittoria. Ma non mi lamento. Di solito ormai gioco partite che ne valgono 300”. Prima di andare a Wimbledon (dove poi ha raggiunto il secondo turno: 70 mila euro) era stato semifinalista a Blois, ricevendo in cambio un assegno di 2.500 euro. Robert, che ha all’attivo anche un ottavo di finale agli Australian Open, ha guadagnato oltre 2 milioni e mezzo di euro in premi, senza considerare gli sponsor, e ha potuto gestire il finale della sua carriera. Ma per chi inizia senza una famiglia facoltosa alle spalle, uno sponsor generoso o una federazione che crede in lui, e non riesce mai a mettere il naso dentro la Top 100 – magari con un exploit in uno Slam – organizzare una stagione e arrivare in fondo senza indebitarsi è decisamente complicato. Nell’èra di YouTube e dei podcast è facile trovare racconti in prima persona di tennisti non di prima fascia costretti a contare ogni centesimo speso e guadagnato, come nelle famiglie dei film neorealisti. Nel suo anno migliore, il 2023, l’australiano Thomas Fancutt, ha vinto un torneo minore dopo una serie di tre finali raggiunte e perse. Era diventato il numero 382 del mondo, aveva giocato il suo miglior tennis, eppure chiuse la stagione con un passivo di 13 mila dollari.
Alcuni considerano un budget annuo di 80 mila dollari per andare in pari tirando la cinghia (dormire in aeroporto, condividere stanze con altri giocatori, viaggiare in economy negli orari più infelici, risparmiare su cibo, massaggi, terapie), altri parlano di 300 mila dollari. Perché non importa quanto tu possa guadagnare, le spese – soprattutto se vuoi migliorarti – aumentano sempre.
Qualche tempo fa, dopo una chiacchierata con un giocatore professionista, il sito Tennis Fitness ha riassunto tutte le voci di spesa trovando il vero punto critico dalla duecentesima posizione in classifica in poi. Oltre a cibo, alberghi, trasporti e allenatore, esistono costi spesso non considerati, ma che nell’arco di un anno fanno la differenza, a cominciare da divise, racchette e corde. Ci sono pure i costi di lavanderia, visto che nei tornei minori l’organizzazione quasi mai se ne occupa. E poi i bagagli smarriti negli aeroporti, statisticamente tre all’anno, con conseguente perdita dell’attrezzatura, a volte prestata da altri giocatori, a volte ricomprata sul momento. E poi non si sa mai quando si verrà eliminati, il che complica la prenotazione di hotel e aerei, rendendoli più cari. L’insider di Tennis Fitness ricorda come agli inizi, Samantha Stosur, poi diventata numero 4 del mondo e vincitrice degli US Open (2011) dormisse spesso in aeroporto. Il tedesco-giamaicano Dustin “Dreddy” Brown (ex numero 64), ricordato dai più per i suoi dread, la vittoria inattesa su Nadal al secondo turno di Wimbledon 2015, l’esasperato serve & volley e il gioioso abuso di molti colpi più spettacolari che efficaci (come il “tweener”, il colpo eseguito con la racchetta tra le gambe), a un certo punto – su consiglio della madre – si comprò un camper per girare il circuito: “A volte, nei Challenger, capitava di perdere al primo turno. Ti davano un centinaio di euro, giusto la benzina che serviva per arrivare nella città del torneo successivo”, ha raccontato Brown al podcast Second Serve. A un certo punto si mise perfino a incordare le racchette degli avversari pur di racimolare un po’ di denaro extra: “Arrivavo e vedevo che il servizio incordatura del torneo costava 10 dollari, andavo dagli altri giocatori e dicevo che gliel’avrei fatto per 5 dollari”. Ci sono poi imprevisti come malattie (a volte basta un piccolo problema intestinale per mandare all’aria un paio di tornei già prenotati), problemi famigliari e infortuni, magari piccoli ma con grandi conseguenze sul conto in banca. Persino l’acqua, nei paesi in cui non è potabile, è una di quelle voci da mettere in conto per chi – come un tennista professionista – ne consuma almeno 5 litri al giorno.
E poi c’è la solitudine, la grande sottovalutata. Un anno fa, il Guardian pubblicò un estratto dal libro The Racket. On Tour with Tennis’s Golden Generation – and the other 99%, scritto in prima persona dall’ex tennista irlandese Conor Niland (miglior ranking 129), con questo titolo: “‘I’m good, I promise’. The loneliness of the low-ranking tennis player”. Ovvero: “Sono bravo, lo giuro. La solitudine del giocatore di bassa classifica”. In inglese le parole per indicare il concetto di solitudine, a differenza dell’italiano, sono due: “Solitude” è la solitudine cercata, voluta, intesa come lo star bene con se stessi. “Loneliness” è invece la solitudine malinconica, quella che implica disagio, nostalgia e tristezza.

Anche il sottotitolo di quell’estratto rende bene l’idea: “Sono stato il numero 1 d’Irlanda e ho cercato di scalare la classifica mondiale per anni. Ma la vita in fondo al gruppo dei migliori può essere brutale”. Niland lo spiega con tante parole e pochi numeri. Eppure sono i numeri a pesare di più: “Ho passato tutto il settembre del 2005 – compreso il mio 24esimo compleanno – da solo in Svizzera, giocando quattro tornei di una settimana uno dietro l’altro. Dopo venti partite e due trofei vinti era l’ora di riposarmi. Ma mi ero già iscritto a un torneo a Edimburgo, senza immaginare quanto mi sarei stancato in Svizzera. Sarebbe stato il nono torneo in dieci settimane”. Chiamò la madre per dire che non voleva più andarci a Edimburgo. Lei gli rispose semplicemente: “Ma è il tuo lavoro”. Così andò. “Arrivai in semifinale e persi dopo due ore e mezza di partita. Era il mio ventiquattresimo match in cinque settimane. Esausto, sono andato a ritirare il premio: 480 dollari. A cui togliere il 20 per cento di tasse. Questo è il tuo lavoro, Conor”.
Niland parla di tre scaglioni: il primo, quello dei Top 100; il secondo che arriva fino al 300, legato ai Challenger; e poi il mondo dei Futures, popolato da reali promesse e da quelli che l’irlandese definisce “hopeless dreamers”. Sognatori senza speranza. Lui è stato, si è sentito, uno di quelli. Eppure, almeno per un periodo, è stato il 129esimo uomo più forte a giocare a tennis in un pianeta popolato da miliardi di persone e con circa 100 milioni che praticano questo sport. Un’eccellenza del suo sport ridotta – ci risiamo – a un numero. “I grandi giocatori vengono chiamati per nome – Roger, Rafa, Serena – ma gli altri sono conosciuti con un numero, quello della loro classifica… e noi tennisti abbiamo un rapporto profondo e duraturo con il numero del nostro miglior ranking. La tua posizione determina il tuo status, che si vede anche in piccoli gesti. La stretta di mano che un campione dà a un tennista 90esimo in classifica è meno calda di quella che dà a un Top 20”.
Niland poi affronta il tema della “loneliness”, dell’impossibilità di comunicare con l’esterno, del sentirsi soli in certi luoghi, anche se in compagnia. Come a un torneo Futures a Wrexham, in Galles, dove per risparmiare dormiva in una stanza affittata dentro un rumoroso pub frequentato da giovani gallesi ubriachi. A cui gli veniva da dire, mentre non riusciva a prendere sonno, “ma voi lo sapete che io una volta ho quasi battuto Pete Sampras?”. Dopo aver vinto quel torneo, Niland racconta della trasferta successiva in Uzbekistan, una specie di avventura picaresca in un paese descritto come se fosse un film di Borat, tra voli a singhiozzo, lunghe trasferte in auto e animali che si piazzano in mezzo alla strada. Perde male al primo turno e come se non bastasse, al ritorno, il sedile dell’aereo dove sperava di riposare un po’ è rotto. L’estratto sul Guardian si chiude, forse non a caso, con l’ennesimo numero: “Un altro Challenger giocato. Punti in classifica guadagnati: zero”.
Che i guadagni siano una questione di vita o di morte (sportiva) lo conferma lo stesso Niland sul sito dell’ATP, dove per ogni giocatore c’è una piccola bio. Nella sua, il miglior ricordo non è la vittoria più prestigiosa, l’Open di Israele 2010, ma “la vittoria di 100 mila dollari all’Open di Israele del 2010”.
C’è anche chi, dopo aver galleggiato in fondo alle classifiche ATP (miglior ranking 864) i soldi li ha fatti in seguito, grazie al tennis. Si tratta dello statunitense Michael Kosta, diventato stand-up comedian e presentatore del Daily Show (per cui ha vinto un Emmy). Conduce anche un podcast chiamato Tennis Anyone?, e da poco è uscito il suo libro Lucky Loser (che gioca sul significato di “lucky loser” nel tennis, il “perdente fortunato”, cioè colui che perde alle qualificazioni, ma rientra in gioco per un ritiro di qualcuno dal tabellone principale), un memoir leggero in cui racconta la sua carriera e come la solitudine e la vita nomade del giocatore di bassa classifica gli abbiano dato tanti spunti e noiosissimi tempi morti da riempire, utili per pensare e poi segnarsi delle battute, nonché la tempra e la solidità mentale per salire su un palco e non avere paura del pubblico, già affrontato in tutto il mondo, sempre solo, ma con la racchetta in mano al posto del microfono.
Ai riflettori, negli ultimi giorni, si è dovuta abituare anche la francese Loïs Boisson, 22 anni, finita nel tabellone principale del Roland Garros grazie a una wild card. La sua classifica l’avrebbe, invece, costretta a passare per le qualificazioni. Prima del torneo era la numero 361. Dopo un’incredibile cavalcata che l’ha portata fino in semifinale, ora è diventata la numero 65. Il pass per Wimbledon, che si gioca tra un mese, è già suo.
Come accadde per Raducanu dopo gli US Open, la vita di Boisson è radicalmente cambiata quasi da una settimana all’altra. Fino a un mese fa, sul campo aveva guadagnato montepremi per un totale di 148.500 dollari; con la sola qualificazione in semifinale a Parigi ne ha portati a casa 788.200. Ora la vita (sportiva, e non solo) sarà più facile: con l’exploit casalingo, Boisson non è più un numero, ma un nome, un volto. Non a caso, sulla sua maglietta, dopo la vittoria nei sedicesimi di finale, sono apparsi due sponsor internazionali che prima non c’erano a certificare il suo passaggio – vedremo se provvisorio o definitivo – nel gotha del tennis. Bombardati mediaticamente a ogni suo inatteso passaggio di turno, ora di Boisson sappiamo tutto, forse troppo (come di quella volta che un’avversaria si era lamentata del fatto che puzzasse e lei si è inventata un video su Instagram dove chiedeva a una nota marca di deodoranti di sponsorizzarla). Sappiamo che un anno fa si è rotta il crociato proprio un mese prima del Roland Garros, a cui aveva dovuto forzatamente rinunciare tra le lacrime. O che è figlia di un ex giocatore di basket.
Poche settimane fa Boisson era, invece, una delle tante invisibili a cui accennava l’invisibile Niland nel suo libro. Come la connazionale Carole Monnet, la cui sconfitta al primo turno non è stata ritenuta degna nemmeno di un trafiletto su L’Équipe nel giorno in cui si spendevano fiumi d’inchiostro per i tennisti di casa che avevano fatto negli anni il salto da numero a nome: Gasquet, Fils, Monfils e Garcia. Un’invisibilità che, per paradosso, salta agli occhi entrando nell’app ufficiale del Roland Garros, una minienciclopedia del torneo dove si dovrebbe trovare tutto: alla voce Loïs Boisson, però, c’è una foto tagliata di netto sulle spalle da qualche neofita di Photoshop e mancano sia il luogo di nascita che l’altezza. Anche la casella che dovrebbe indicare se è mancina o destrimane è rimasta vuota.
Più si sale in classifica, ovviamente, più le informazioni sono complete e le foto, professionali, perfettamente ritagliate. Se invece si scende sino al numero 407, tal Anna Siskova, oltre alle altre informazioni, manca pure la fotografia: c’è solo una sagoma grigia a dare proprio l’idea della sua spersonalizzazione, della necessità di averla per fare, appunto, numero. Un bot in carne e ossa utile per completare i tabelloni extralarge dei primi turni e dei primi giorni. Quelli in cui noi appassionati, anche i più preparati, siamo andati in giro spaesati per campi secondari a chiederci: “E quella chi è? E questo da dove esce?”. Come nonne in poltrona davanti all’ennesimo trapper sul palco di Sanremo.
Lavazza sostiene Mezza Riga e celebra dieci anni di presenza al Roland Garros. Un connubio tra eccellenza e ritualità che porta l’esperienza del caffè italiano nel cuore di uno dei tornei più iconici del tennis mondiale.
Roberto Scarcella è nato a Savona e vive in Svizzera, dove è responsabile esteri del quotidiano laRegione. Ha lavorato e scritto per Il Secolo XIX e per La Stampa. Giramondo con una predilezione per il Sudamerica, ha una rubrica di viaggi sul settimanale Ticino7 intitolata “Disavventure latine”. I suoi racconti e reportage sportivi sono pubblicati anche su Ultimo Uomo.
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