Nel nome del figlio – Mezza Riga n. 14
Ci sono mille modi di essere genitori, e mille modi di essere genitori di tennisti. C’è una traccia di Mike Agassi in ciascuno di noi, con varie gradazioni
Testo di Simone Spetia
Illustrazione di Francesca Gastone
E la sera cosa succede? Quando si ritrovano a fine giornata in un casa magari silenziosa e il figlio è lontano, in un paese straniero, sotto i riflettori del mondo? Forse si chiederanno, come facciamo noi, operai più umili nella vigna della genitorialità, come sta davvero il ragazzo, se è tranquillo, se è pronto ad affrontare la sfida che avrà l’indomani, se e come potranno aiutarlo per lenire il dolore della sconfitta subita. Forse cercheranno di interpretare quella smorfia che un cameraman ha ritratto durante una pausa di gioco, proveranno a leggere il moto di rabbia, a giustificare la racchetta spaccata, a capire i motivi del cedimento nel game decisivo. I replay, ai loro occhi, sono qualcosa di completamente diverso. Sapranno che è insieme a una specie di nuova famiglia, quelle due o tre persone con le quali viaggia in aereo, dorme in albergo, frequenta la palestra, quelle persone che sono diventate i suoi genitori tennistici: io gli ho insegnato a camminare, loro gli spiegheranno come scivolare meglio sulla terra; io ci ho messo un anno a fargli mangiare la pappa col cucchiaio, loro hanno due settimane per sistemargli il servizio; io lo calmavo raccontandogli le favole prima di andare a letto, da loro impara come rilassarsi e sgombrare la mente tra un punto e l’altro.

Ci sono mille modi di essere genitori, ci sono mille modi di essere genitori di tennisti, e forse possiamo abbozzare uno schema iniziando da un aneddoto che riguarda (manco a dirlo) Jannik Sinner. Va premesso che Siglinde e Hanspeter sembrano fatti apposta per far sentire in colpa tutti noialtri. Empatici quando serve – prova ne siano le facce della mamma ripetutamente inquadrate durante la finale del Roland Garros di quest’anno – ma senza essere ossessionati dalla carriera del figlio: non vanno neanche alle finali degli Slam quando in Alto Adige è alta stagione e devono lavorare. In una famiglia nella quale il fratello, come noto, ha preferito il Gran Premio di Imola alla finale di Roma, la conservazione della normalità in una situazione eccezionale è rappresentata alla perfezione da una foto raccolta nei giorni successivi alla vittoria a Wimbledon e pubblicata da un account di un fan brasiliano che ha incontrato Jannik e il padre al supermercato: il campione guarda in camera con le mani sulle spalle dei due fan, dietro di loro Hanspeter con in mano due cetrioli che ragiona sulla cena.
L’aneddoto è questo. Il futuro numero uno del mondo, adolescente, telefona disperato (ci è difficile pensarlo così: diciamo dispiaciuto) alla madre dall’accademia Piatti di Bordighera dopo aver perso malamente in un torneo. Siglinde risponde da 656 chilometri di distanza, dal rifugio Fondovalle in Val Fiscalina a Sesto (BZ), dove fa le pulizie e serve in tavola, mentre il marito cucina: “Se il tennis non ti piace, puoi venire a darmi una mano”. I genitori di adolescenti sanno quanto una frase di questo genere sia liberatoria. Abbiamo cambiato pannolini, imboccato, insegnato a camminare, accompagnato a scuola, a fare sport, dal compagno di classe, gestito pianti, capricci, crescita dei denti, influenza, raffreddore, mal di pancia, abbiamo subìto riunioni di classe, feste piene di piccoli esseri urlanti e ingestibili, aperitivi e pizzate coi genitori, colloqui con maestre e professoresse, open day di qualsiasi tipo. Ora sono cresciuti e finalmente possiamo dirgli: “Ho da fare, arrangiati”.
Dopo aver ammirato le mamme giapponesi che aspettano che i figli si sappiano mettere le scarpe da soli prima di uscire (ma quanto tempo hanno?), espresso perplessità sulle mamme tigre cinesi, portatrici di una disciplina ai limiti dell’autoritarismo e nutrito enormi dubbi sulle mamme elicottero, quelle che arrivano ogni volta che c’è un problema, eccoci ad amare sconfinatamente la mamma altoatesina: ti voglio bene, fai quello che ti pare, ma non mi rompere le palle perché sto lavorando.
Se nello schema di cui si diceva collochiamo Siglinde Sinner in un punto, dalla parte opposta c’è Mike Agassi, diciamo padre tigre di un altro numero uno del mondo, Andre, il quale lo ha ritratto impietosamente nel libro Open. Si tratta del creatore del Drago, la macchina sparapalle che insegna a un bambino di sette anni a colpire sempre d’anticipo. Mike è un uomo ossessivo:
Violento di natura, mio padre è sempre pronto alla battaglia. Si allena continuamente contro l’ombra. Tiene un manico d’ascia nella sua auto. Non esce mai di casa senza una manciata di sale e pepe in ciascuna tasca, nel caso si trovi ad azzuffarsi per strada e debba accecare qualcuno. Le sue lotte piú feroci, però, sono con se stesso. [...] Vorrei solo che fosse meno duro, meno rabbioso e piú disposto ad ascoltarmi. In realtà a volte vorrei che papà mi amasse di meno. Forse allora farebbe un passo indietro e mi lascerebbe fare le mie scelte.
La frase chiave è la penultima, che tramuta il mostro in un uomo incapace di liberare il figlio dalle proprie ossessioni o di rendersi conto che la libertà di scelta che lasciamo loro, anche quando sono dei bambini, è un valore fondamentale. Eppure c’è una traccia di Mike Agassi in ciascuno di noi, con varie gradazioni: nel parossismo del padre del campione rintracciamo i nostri tentativi di far rispondere i figli alle nostre aspettative sportive, lavorative ed educative; nelle sue fissazioni recuperiamo quel filo di vergogna o di rabbia quando le cose non vanno come gli insegnamenti dei nostri stessi genitori ci avevano suggerito che dovesse andare.
In fondo li vorremmo perfetti come noi non siamo stati, e ci raccontiamo che è “per il loro bene”, quando a volte questa frase nasconde un sentimento di rivalsa. Dovete essere quello che noi non siamo stati. Imparate a suonare, giocare, studiare come noi non siamo stati in grado di fare. Ma c’è anche del buono in questo, perché in realtà è giusto stimolarli a dare il meglio, ed è davvero “per il loro bene”, almeno in parte. Ma dov’è il confine?
Uno che non sembra saperlo tracciare è il padre di Stefanos Tsitsipas, Apostolos, lasciato e ripreso dal figlio come allenatore in più di un’occasione. L’ultima volta, quando ha scelto come coach Goran Ivanišević, le dichiarazioni sembravano prese dal lettino dello psicanalista:
Mi sono sentito più in controllo delle mie emozioni, di come voglio che le cose siano. È questo che mi dà la libertà di sentirmi più libero, più vivo. Riesco davvero a individuare con precisione ciò che voglio e ciò che non voglio.
Poi ha postato su Instagram un video intitolato “narcissistic parents” (genitori narcisisti) con questo testo:
Il figlio di un genitore narcisista impara presto che l’amore è condizionato. Capisce rapidamente che sarà amato solo per ciò che fa, non per ciò che è. Percepisce che i genitori non sono in grado di soddisfare i suoi bisogni emotivi e così impara a recitare una parte: eccellere nello sport, nello studio o diventare il confidente e il sostegno emotivo dei genitori.
E poi, dopo qualche mese, marcia indietro: il padre era di nuovo seduto nel box. E il problema non è Stefanos: quanto narcisismo ci vuole per non decidersi a fare un passo indietro? Non conosciamo Apostolos, ma conosciamo il modello. Il genitore che si pensa insostituibile, per certi versi e stereotipi terribilmente mediterraneo e infinitamente lontano da Tomasz Świątek, il padre di una delle tenniste più forti di quest’èra, Iga, che dopo averla allenata fino ai vertici della classifica WTA, facendone la prima tennista polacca a raggiungere il vertice, l’anno scorso ha fatto un ammirevole passo indietro:
Sono felice di poter stare con lei nel ruolo di genitore. Noi siamo, prima di tutto, una famiglia e la famiglia non è lavoro. Per quello Iga ha degli specialisti.
Questa rassegna potrebbe andare avanti all’infinito, comprendendo tennisti di oggi (Andrej Rublev, Casper Ruud) e del passato (Andy Murray, Michael Chang), per i quali non sappiamo se i successi sul campo, l’apparente pace famigliare, fosse in realtà il velo che copriva tormenti, dubbi, incapacità di rescindere il cordone ombelicale, ma non può escludere la figura più ingombrante, quel Richard Williams che ha allenato fin dall’età di quattro anni e mezzo la tennista più forte della storia, Serena Williams, e sua sorella maggiore, Venus, prima donna nera a diventare numero uno al mondo. Nel film interpretato da Will Smith (King Richard) viene ritratto come un uomo quasi perseguitato dal pensiero del riscatto sociale, dal desiderio di portare fuori la sua famiglia dal peggior quartiere di Los Angeles, Compton. Siamo di nuovo di fronte a un confine difficilmente tracciabile: dove finisce l’ego, la proiezione dei propri desideri e dove inizia la scelta per il bene delle proprie figlie? Un confine labile, poroso. In fondo, se anche fosse tutto frutto dell’ego e della propria volontà di riscatto, il risultato è un happy ending. Preferisci restare a Compton tutta la vita o avere un genitore fissato col tennis che elabora un piano in 85 pagine per trasformarti in una stella dello sport ultrapagata?
In breve, non c’è un’unica formula, “it’s complicated”, che è quello che sa qualsiasi genitore. Se mio figlio ha un talento, una predisposizione, una passione, come devo comportarmi? Fino a che punto lo devo spingere? Noi guardiamo questi ragazzi dal divano e ci dividiamo sul singolo punto, sulla reazione esagerata, commentiamo la tenuta psicologica lanciandoci in giudizi tranchant su un mental coach “del quale avrebbe bisogno”. I loro genitori, che siano in una valle della provincia di Bolzano o sugli spalti, vedono solo la persona che hanno cresciuto, con i suoi pregi e i suoi difetti di sempre, prima ancora del tennista. Dice Ivan Ljubičić, il quale ricorda che i genitori di Federer e Nadal hanno fatto presto un passo indietro:
Ho visto trenta generazioni di quindicenni nella mia carriera. Questa prospettiva mi permette di riconoscere dei modelli e di prevedere gli ostacoli. Ma quando si tratta di mio figlio è diverso. È difficile restare obiettivi perché si è troppo coinvolti. La cosa più sana che posso fare è lasciare che l’allenatore faccia l’allenatore e concentrarmi sull’essere presente per lui quando ne ha bisogno.
Che poi è esattamente questa la cosa più complicata.
Simone Spetia, giornalista di Radio 24. Interessato di politica, economia, finanza, social, storia, tecnologia, e soprattutto di tennis, oggi è autore e conduttore di “24 Mattino”.
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