Tennis pre-mortem – Mezza Riga n. 16
Tre motivi per cui impegnarsi a giocare a livello agonistico quando non si è più così giovani e prima che un guaio fisico impedisca di correre ancora sulla sabbia rossa o di colpire un rovescio
Testo di Marta Dassù
Illustrazione di Alessandro Ferrari
Sono diventata campionessa italiana due volte: a 12 anni, vincendo la Coppa Lambertenghi al Bonacossa di Milano, e poi a 69, vincendo il titolo italiano senior. E quindi è evidente: per me il tennis significa competere. Odio allenarmi, amo giocare per vincere, anche oggi, in quello che definisco – in modo un po’ macabro – tennis pre-mortem. L’ultimo tennis, prima che un guaio fisico di qualche tipo impedisca di correre ancora una volta sulla sabbia rossa o di colpire in modo decente un rovescio in back. In mezzo – fra i campionati ragazze e quelli veterane – è esistito solo il lavoro. Tempo per il tennis quasi zero, anche se sono stata una seconda categoria piuttosto forte e ho giocato varie volte i campionati di prima, dove l’unico incontro che davvero ricordi è la batosta subita da una Lea Pericoli che aveva venti anni più di me.
Il mio tennis, quindi, è stata una cosa da piccoli, e oggi è una cosa da vecchi. Una specie di parabola della vita. Ho sempre giocato in modo simile: lungo-corto, con una quantità di smorzate, un bel rovescio e un pessimo dritto, parecchia rete, molto tocco e poca forza. Un gioco strano, adatto ai ragazzini di una volta e abbastanza adatto alla terza età. E che ha molto poco a che fare con il tennis contemporaneo, in effetti quasi un altro sport.
Ai campionati del mondo veterani di Miami, dove ho giocato (male) nel maggio scorso, la numero 2 del nostro ranking internazionale, l’inglese Pauline Fisher, mi ha detto scherzando: “Non so se dovremmo chiamarlo tennis o inventarci un nome diverso”. Fatto sta che restiamo, in un modo o nell’altro, sulla palla.

Ma qual è la dimensione in Italia del tennis senior o master, come viene chiamato nel circuito internazionale? Se consideriamo tutte le categorie – in teoria dai 30 fino agli 85 anni, divisi per gruppi di età ogni cinque anni – è un fenomeno piuttosto rilevante. Ai tornei nazionali partecipano ogni anno 4-5.000 giocatori, mi diceva Gabriele Poggini, coordinatore del settore Veterani della Federazione. Ai tornei regionali o cittadini se ne iscrivono tre volte di più: 15.000 forzati del tennis amatoriale, ma pur sempre agonistico. A cui aggiungere chi partecipa ai circuiti amatoriali, come il TPRA, e quelli che si limitano al torneo del circolo. L’Italia sta organizzando per il prossimo anno, a Roma (Tennis Oasi di pace), i campionati mondiali over 50 e over 55: è un’opportunità, anche per gli sponsor.
L’Italia, in queste categorie di età, è particolarmente forte, una buona notizia che conferma però lo sconfortante profilo demografico del nostro paese. Nell’over 50 è stabilmente tra le prime Valentina Padula, che ha occupato anche la prima posizione; nell’over 55 Sabrina Cantoni ha vinto i campionati mondiali del 2025 ed è in testa al ranking che la International Tennis Federation (ITF) aggiorna ogni settimana e che riflette i punti accumulati nei vari tornei disputati. Nell’over 55 maschile troviamo due giocatori italiani nei primi venti del mondo. Si tratta di un indice non secondario della qualità e della diffusione del tennis praticato – non solo guardato – in fasce non più giovani della nostra popolazione, forse anche frutto dei due boom tennistici italiani, quello dell’èra di Pietrangeli e quello ancora più consistente degli anni Settanta di Panatta e soci. Non in Italia ma nel circuito internazionale, esiste anche una buona partecipazione all’over 30: un italiano, Mattia Mannocci, è il numero 2. Si può discutere, vista l’età di Djokovic, se una categoria del genere abbia davvero senso. D’altra parte, fa intuire che il circuito Master non è fatto di para o ex-professionisti: prevalgono gli amatori.
Andiamo adesso veloci verso l’altro capo della linea del tempo: nell’over 80, Tonino Claudi ha appena vinto il campionato mondiale. Nell’over 85, Giovanni Argentini e Paolo Occhipinti sono in top ten, così come lo sono nelle donne over 65 Michelina Valente e Laura De Vittori. La squadra italiana over 60, fatta di giocatrici già forti in gioventù, è arrivata seconda ai campionati mondiali di Miami, battuta solo dagli Stati Uniti.
Per pura curiosità ho guardato il primo over 90 della classifica mondiale, anche se è una categoria nella quale l’Italia non è rappresentata: vale una sorta di principio di precauzione che prima del 2022 coinvolgeva tutti i tennisti sopra gli ottant’anni, con un limite che poi è stato finalmente spostato di cinque anni. Il leader di questo gruppo super-senior è Herbert Althaus, un giocatore tedesco nato addirittura nel 1934: abbastanza impressionante. L’organizzazione ITF prende la cosa molto sul serio, scommette sull’allungamento della vita media.
Ho poi scorso la classifica mondiale delle prime 300 classificate nell’over 70 del circuito Master. Ma sarei potuta andare molto più avanti, giocano davvero un numero incredibile di persone. Lo stesso – il numero incredibile – vale per i tornei, con un calendario senza fine che va da Naples a Santiago del Cile, fino a Shanghai: un calendario a punti, con il torneo di Maiorca che ne vale 1000, Bari 700 e così via. Dall’America all’Australia, dall’Asia all’Europa, potresti giocare ogni settimana. Per soldi? Certo che no, semmai sono soldi spesi, non guadagnati. I premi, in queste categorie della terza età, sono, insieme alle coppe, ulteriori weekend che probabilmente non farai mai.
Ha senso impegnarsi nel tennis pre-mortem? Non è una domanda così stupida come sembra. In effetti, il tempo che resta non è infinito e puoi decidere di fare molte altre cose, probabilmente più interessanti. Esistono tre ragioni essenziali, credo, per cimentarsi nel tennis agonistico senior. Provo a riassumerle, sperando anche di recuperare parte delle mie avversarie di mezzo secolo fa, che non giocano più.
Accettare l’invecchiamento sportivo è una lezione di vita. Serve in genere, aiuta ad adattarti. Spinge almeno in parte a ripensarti, a essere flessibile, a non darti per vinta in anticipo. Vale soprattutto in uno sport come il tennis che richiede un miglioramento continuo, visto che è prima di tutto una sfida con se stessi. Posso ancora giocare tre set e posso vincerli – o perderli, non è questo il punto. E quello che vale per il tennis vale per tutto il resto. È una questione di impegno. E di fiducia nel futuro che resta.
Il circuito senior della International Tennis Federation è costruito, come accennavo, su una serie infinita di tornei in tutto il mondo, e quindi giocarli è anche un modo per viaggiare, potendoselo permettere (posto che ci sono anche molti tornei in Italia). Ed esiste qualcosa di simile a una geopolitica del tennis. L’anglosfera è nettamente predominante: le prime quattro giocatrici del mondo over 70 sono americane, australiane e inglesi. Molto fit, molto a rete, con ancora un servizio degno di questo nome. Sono persone che hanno giocato davvero bene in passato. È una supremazia anglo-occidentale che resiste nel tennis senior molto più che nel sistema internazionale. Poi arriviamo noi europee continentali (le prime due italiane del ranking internazionale, nelle prime 15 posizioni, siamo io e Loreta Tius, che mi ha appena battuto nella finale dei Campionati nazionali) e qui le cose si complicano: le spagnole oscillano fra gare in Sud America e nel Vecchio continente, sentendosi comunque parte di un impero tennistico; le francesi restano convinte di una loro non così manifesta superiorità; le nordiche sono algide anche nei climi più torridi; le tedesche tendono ad accusare le giocatrici mediterranee, secondo il più vieto dei cliché, di cercare sempre di imbrogliare un po’. Di vedere la palla fuori invece che sulla (mezza) riga. Cosa non vera, per quello che ho potuto osservare sui campi, ma che rende l’idea: perfino nel tennis pre-mortem, gli europei si dividono secondo linee abbastanza abituali per chi si occupa di politica estera nei suoi risvolti psicologici. I russi ci sono (più delle russe): senza bandiera, secondo le sanzioni adottate dal mondo sportivo dopo lo scandalo doping di Sochi e dopo l’invasione dell’Ucraina. In breve: giocare sul circuito vale comunque come esperienza internazionale – nel bene e nel male.
Infine, disputare una gara di tennis aiuta a chiarirti le idee e a darti una mano sul fisico. Scopri i tuoi limiti, ma anche che puoi superarli. Produci endorfine che ti fanno fare meglio il resto delle cose, quali che siano. Metti in migliore equilibrio movimento e pensiero, a condizione di non farne un’autentica fissazione o mania. Cosa che, in pochissimo tempo, trasforma il piacere di un match di tennis in tarda età in una sfida nevrotica epocale: con insulti, lamenti, crisi e altre cose incomprensibili del genere. Se il tuo approccio al tennis è fatto solo di passione, divertimento e convinzione, vale davvero la pena. Se nei fai un affare di stato, diventa una cosa ridicola. Resta che perdere non è mai piacevole, a nessuna età. Mentre continua a valere, a qualunque età, la paura di vincere, il famoso braccino: mi è appena capitato, purtroppo, alla finale dei Campionati italiani. Tra sfide superate o fallite, direi senza dubbio che prevale il divertimento, incluso quello legato a nuove amicizie sportive.
Chissà se sono così riuscita a convincere le mie avversarie di un tempo o chiunque abbia deciso di lasciare perdere il tennis pre-mortem. Magari convincerò – anche se ne dubito – la protagonista di una telefonata sorprendente che ho ricevuto qualche anno fa. Il mio telefono squilla e una persona si presenta così, senza tanti complimenti: “Ehi Marta ciao, sono Gianna”. “Gianna chi?”, rispondo. “La Nannini – dice la voce che arriva da Londra – Non ti ricordi che mi hai battuto ai campionati toscani juniores? Insomma, devo vederti perché quella partita per me è stata fondamentale. Mi devi aiutare a ricostruirla, sto scrivendo un libro e metterò un capitolo sul tennis”.

Per me Gianna Nannini è un mito assoluto, e quindi ho accettato con molto entusiasmo di raccontarle quello che non mi ricordavo più. Avevo vinto con un netto 6-0, 6-0, questo lo sapeva lei. Come e perché me lo sono inventato di sana pianta, supponendo che come al solito avessi fatto tremila smorzate. Ma la sua motivazione era affascinante: attorno a quella finale, in un momento di incertezza sulla piega da dare alla propria vita, non sapeva se scegliere la musica o il tennis. E grazie a quella sconfitta brutale, per fortuna, scelse la musica, realizzando quello che forse è stato il mio maggior successo tennistico. Questo vale per lei, che comunque aspetto sul campo quando e se vorrà. Per tutti noi che non abbiamo scalato le classifiche musicali o che non ci siamo trovati di fronte a una sliding door così eclatante, vale il fatto che possiamo ancora giocare, più o meno bene, ormai non importa. Contano tutte le ragioni che fanno del tennis una passione vitale che non si spegne quando cominciano ad abbassarsi altre luci.
E quindi, allacciamoci le scarpe, prendiamo la racchetta, andiamo a giocare. Un servizio, una smorzata, un rovescio in back, una discesa a rete. Finché ce n’è.
Marta Dassù è Direttore della rivista Aspenia, Senior Advisor per l’Europa di Aspen Institute Italia e vicepresidente del Centro Studi americani. Fra il 2011 e il 2014 è stata viceministro degli Esteri. Il tennis è una sua passione da sempre: praticata da piccola, abbandonata da grande, e ripresa oggi competendo nel circuito Master della International Tennis Federation.
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Bello!
Bellissimo pezzo! Ironica e divertente la descrizione delle rivalità nazional geografiche europee.