Una carezza alla terra – Mezza Riga n. 3
La lentezza della stagione del rosso può apparire come l’antitesi del tennis moderno. Eppure sembra contenere l’essenza di questo sport: richiede molti strati diversi e manutenzione costante
Questo numero di Mezza Riga è realizzato grazie al sostegno di Lavazza.
Testo di Elena Marinelli
Illustrazione di Davide Bonazzi
È il 5 giugno, il tabellone segna 6-4, 6-6. Francesca Schiavone è in vantaggio 6-2 nel tie-break. È il match point e l’italiana aspetta il servizio di Samantha Stosur. In palio c’è l’edizione 2010 del Roland Garros. Schiavone commenta un momento critico di quella finale con un gesto inconscio: mentre si posiziona in attesa di ricevere, con il taglio della racchetta dona una carezza alla terra, quasi per controllare che il campo sia lì, nel punto quadrato a lei più prossimo possibile, e lei non si allontani troppo dall’obiettivo.
I quattro game dal nono al dodicesimo, fino al sei pari del secondo set, sono stati un botta e risposta continuo. Se non fosse una questione di tifo nazionale, la partita sarebbe da annoverare nell’insieme di quelle perfette, in cui niente è dato per scontato e le qualità millimetriche e peculiari di ciascuna giocatrice sono espresse al massimo della palpitazione. L’equilibrio dell’azione porta il secondo set al tie-break, dove Schiavone e Stosur danno il meglio: un compendio di bravura e tempismo che appassiona anche il pubblico sugli spalti. Schiavone porterà a casa il torneo proprio con quel punto, la terra le restituirà la carezza nella maniera più dolce.

Quando oggi si dice “campo da tennis”, la mente va dritta alle righe bianche inchiodate su terra rossa, alle impronte lasciate come tracce, alle scivolate, al colore che si attacca ai vestiti, ai calzini, alle magliette. A quella polvere compatta e palpabile sul collarino delle scarpe che dal basso verso l’alto, dalla terra verso il cielo copre, forse protegge, chi gioca a tennis. La terra è lenta, si dice. La terra è per un certo tipo di giocatore, strategico e resistente che irretisce nella tela dello scambio lungo e non soffre il tempo dilatato. La superficie veloce, invece, è accelerazione e rapidità. E in questa corsa ideale tra passato di terra e presente di cemento, oggi guardiamo la prima e la vediamo ancora come uno spazio antico capace di lustrare il talento tattico della precisione, uno spazio che come il talento ha bisogno di manutenzione, che viene tirato a ogni fine set, spazzolato sulle sue righe, bagnato in precisi momenti.
Il gioco su terra battuta è fatto di pazienza, è fatto per chi ama stare sul campo senza limiti di tempo e di immaginazione: gli scambi possono allungarsi, gli angoli e le righe sono spazio di atterraggio per punti memorabili. La terra esalta l’atleta migliore, che si supera quando la tensione del gioco si estende all’estremo. È insieme un terreno che subisce le ingerenze, quasi le angherie, dell’atmosfera – umidità, altitudine, temperatura – e si costruisce un po’ come un tennista, strato su strato: calcestruzzo con pozzetti di drenaggio, ghiaia più grossolana e pietrisco più fine per stabilizzare, materiale drenante bagnato e rullato, un sottomanto di terra rossa steso e livellato, e l’ultimo strato uniforme, pochi millimetri di polvere di laterizi macinati, rullata e bagnata ancora.
Se tutti i giocatori sono costruiti su più livelli, a maggior ragione lo sono quelli che preferiscono la terra, che come i suoi interpreti migliori è fatta di diverso materiale, più o meno grezzo, assemblato in una materia nuova; non una somma casuale di elementi quanto un’armonica costruzione a più livelli dei quali ciascuno aggiunge un pezzo al quadro, fino alla solidità delle linee bianche, inchiodate al campo per non sparire mai del tutto, al massimo camuffarsi e solo temporaneamente, quando lasciano spazio ora a una scivolata, ora a un in, per poi tornare a essere un nuovo inizio dopo un colpo di spazzola.
Ciò che non bisogna mai lasciare fuori dal campo per giocare su terra battuta è il tempo: a disposizione per scambiare, per anticipare sui rimbalzi alti, scelto accuratamente per eseguire una palla corta. Avere contezza del tempo significa governarlo sul campo, ma anche avere contatto con l’essenza del punto che va costruito senza fretta.
Eppure era nato tutto per caso. A fine Ottocento due tennisti inglesi, i fratelli William e Ernest Renshaw, i più forti all’epoca, giocano solo sull’erba: questo sport è nato sul verde e lì compie la sua catarsi ogni anno per circa un mese. Quando vanno in Costa Azzurra l’erba non trova respiro: avvizzisce, consumata dal sole, e non è giocabile. La terra rossa serve a proteggerla, coprendo il manto verde di argilla e terracotta, per far sì che non secchi. In pochi decenni diventa la superficie più usata sui campi da tennis, entrando nell’immaginario di chiunque per non andarsene più.
Nei due circuiti maggiori, ATP e WTA, i tornei su terra rossa occupano gran parte del calendario e in modo opposto rispetto alle superfici dure definiscono le caratteristiche principali di un giocatore o una giocatrice professionista. Nell’èra Open la terra porta con sé una certa interpretazione del gioco e uno specifico approccio: chi arriva al professionismo già consapevole di dare il meglio sul rosso sarà molto facilmente etichettato come un tennista di talento, perché governa la religione della forza e della resistenza, del tocco e delle smorzate, dell’intelligenza tattica. Come la terracotta di fine Ottocento, è un tennista che si adatta a molte variazioni e sa scegliere quali frecce scagliare, padroneggiando l’arco con precisione e accuratezza.
Prendiamo Björn Borg. Con sei Roland Garros vinti, fu uno dei massimi interpreti del gioco su terra battuta, poi oscurato da quell’autentico cannibale del rosso che è stato Rafa Nadal. Ciò che Borg esalta della terra e quest’ultima del tennista è la cura maniacale del colpo. Quello che Borg fa con il corpo, tutt’uno con la racchetta e la posizione sul campo, è mostrare lo strato immediatamente inferiore della terra battuta: quella compattezza, che è lucidità, fondamento necessario per qualsiasi movimento. La lentezza del campo si misura costantemente con la capacità dello svedese di gestirlo, di entrarci con naturalezza, come se la sua energia vitale fosse assorbita dal suolo e da esso ne uscisse rinnovata, con la giusta misura, adatta alla tensione dello scambio che diventava un duello, punto su punto, senza cedere, senza sbavature.
Un esempio su tutti è la finale del 1981 contro Ivan Lendl, l’arte del topspin che incrocia l’arte del palleggio pressante. In quella partita molto spesso lo svedese risponde ai colpi profondi dell’altro rallentando la pallina, frenando il colpo, cercando di non concedere punti di riferimento durante lo scambio. E ogni volta che torna con le mani in tasca e lo sguardo penzoloni verso la sua linea di fondo, per ricevere o per servire, Borg considera l’effetto di quello che ha appena fatto: la frustrazione che imprime, il vuoto che lascia alle intenzioni dell’avversario. Una difesa a rete, con un semplice tocco della racchetta sulla pallina quasi persa, diventa un punto perché inaspettato: Borg si allunga, stende il braccio, colpisce di misura, la traiettoria incrociata è perfetta e raggiunge il punto del campo in cui l’altro non arriva, anche se ci prova. Calcolato alla perfezione, Borg non lascia tempo, non lascia spazio e se Lendl prova a seguirlo, cercando il governo del punto da fondo usando gli angoli, Borg lascia casa e si spinge un po’ in avanti, trovando l’imprevedibilità in quella zona del campo prossima alla rete in cui il colpo vincente è molto spesso efficace e in alcuni casi spettacolare. Non è mai solo la mano di Borg a vincere, è sempre tutto insieme: lo svedese è il gioco e al tempo stesso è il campo perché non se ne stacca mai, da quando la partita inizia a quando finisce.
Uno degli strati più profondi di cui è composto il campo da tennis è quello della ghiaia, che serve per stabilizzare il livello immediatamente inferiore, il primo. Per arrivare alla superficie, all’esaltazione del colpo, per riuscire a cambiare il tempo e a essere sempre accurati nei movimenti, c’è bisogno di avere una mente stabile, dalle fondamenta solide.
In un tennista di terra battuta non si può prescindere dall’intelligenza tattica, che a volte dà origine a un fraintendimento: quello per cui la concentrazione e la strategia prendono il posto della creatività e dell’estro, e che quindi un gioco calcolato e noioso sovrasterebbe uno geniale e divertente. È colpa della terra e dei suoi rimbalzi alti, dello scambio che parte da fondocampo, se non c’è spettacolo. Ma si tratta, appunto, di un fraintendimento: sul campo di terra rossa non ci può essere esecuzione fine o immaginazione creativa senza la capacità di prevedere la realizzazione del gioco, il suo farsi. Senza sapere, con anticipo, cosa è giusto fare, quando e perché, per prendere in mano il punto e portarlo dalla propria parte.
Negli ultimi tre punti di quel match tra Schiavone e Stosur c’è tutto ciò di cui abbiamo parlato: un topspin di dritto quasi esasperato irraggiungibile dall’australiana, una discesa a rete con una stop volley stellare, e poi la conclusione, con un palleggio sempre più stretto di rovescio e Stosur che stecca, chiudendo il match. Entrambe le giocatrici sono arrivate a quella finale con il tempo – rispettivamente a 30 e 26 anni – e riuscendo a vincere partite in quel torneo come mai prima, contro avversarie superlative che in quel decennio scrivevano la storia (Serena Williams, Caroline Wozniacki, Justine Henin, Elena Dement'eva).

Durante il Roland Garros, Schiavone costruisce, inventa, non sembra mai davvero stanca e nessuna si sarebbe aspettata di vederla arrivare tanto sicura al quarto di finale contro Caroline Wozniacki, che di lì a poco sarebbe diventata numero uno del mondo. Come Schiavone, anche Stosur ha costruito il suo gioco anno dopo anno, tra prove ed errori. La tendenza al lavoro continuativo e la gioia dell’allenamento sono due qualità preziose, che le rendono atlete eccezionali e maturate col tempo, con tre qualità che condividono. La prima, la più appariscente, è la forza: entrambe usano la potenza fisica, la propulsione dei muscoli come fulcro dello scambio. La seconda è una grande solidità mentale in campo, la capacità di soffrire. La terza, forse la più intima, è l’accettazione delle aspettative, trattate a quel punto della loro carriera e della loro vita con compiutezza. Ne esce, come si diceva, una partita meravigliosa che si chiude con un rovescio di Schiavone che porta l’avversaria all’errore. Si inginocchia, poi si stende e piange di gioia: dopo averla accarezzata bacia la terra, quasi la mangia, la divora strato per strato, come aveva promesso.
Lavazza sostiene Mezza Riga e celebra dieci anni di presenza al Roland Garros. Un connubio tra eccellenza e ritualità che porta l’esperienza del caffè italiano nel cuore di uno dei tornei più iconici del tennis mondiale.
Elena Marinelli abita a Milano, è autrice di Il terzo incomodo (Baldini + Castoldi), Steffi Graf (66thand2nd) e di due racconti per le raccolte Rivali (Einaudi) e Fondamentali (66thand2nd). Tra le sue collaborazioni: Ultimo Uomo, Undici, Lucy - Sulla cultura e ilLibraio.it.
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