L’ex predestinato – Mezza Riga n. 12
Ambizioso ma fragile, Alexander Zverev incarna la generazione perduta del tennis contemporaneo: talento dal destino scritto, rimasto interprete incompiuto
Testo di Giuliano Malatesta
Perdersi a due punti dalla gloria. Chissà come ci si sente. E poi provare a ritrovarsi, con rabbia e coraggio, risalendo la china, ma senza mai crederci fino in fondo. Troppa fatica. Di testa, non di fisico. Quello è sempre stato quasi perfetto. Se dovessimo individuare un singolo momento, un punto di rottura, nella brillante carriera di Alexander ‘Sascha’ Zverev bisognerebbe riavvolgere il nastro fino al 13 settembre 2020. New York, Flushing Meadows. Il ragazzone tedesco sta affrontando su un Arthur Ashe deserto, causa Covid, l’austriaco Dominic Thiem in quella che è la sua prima finale Slam. Nessuna sorpresa: Sascha, 23 anni, si trova lì perché è l’eletto, il predestinato che si appresta a prendere il posto degli immortali. Lo è sempre stato o ha sempre pensato di poterlo essere, da quando intorno ai cinque anni, sul pavimento di casa sua ad Amburgo allestiva una versione in miniatura di un campo da tennis con le cassette VHS allineate a formare una rete. Aspettava il ritorno del fratello più grande, Misha, giovane promessa del suo stesso sport, e poi partiva la sfida, in cinque set. Agassi contro Sampras.
New York, come quasi tutte le città del mondo in quei giorni, è lugubremente calma e tutto sembra scorrere nella direzione prestabilita. Zverev si porta avanti due set a zero senza eccessivi patemi, riuscendo anche a ottenere un break all’inizio del terzo. L’agognato primo titolo Slam, certificazione suprema che sancisce di diritto l’ingresso nell’olimpo del tennis, sembra questione di minuti. Poi, all’improvviso, cala il buio. Qualcosa si incrina nel suo gioco, fino ad allora fluido ed elegante. Thiem intuisce la situazione, prende fiducia e recupera: il break, il terzo set e anche il quarto. Zverev non ci sta e in un sussulto di orgoglio si porta nuovamente avanti, arrivando a servire per il match sul 5-3 del quinto set. Con quel servizio che ha avuto in dono chiuderla lì dovrebbe essere un gioco da ragazzi, poco più che una formalità. Ma è in quell’istante che si manifesta lo Zverev che impareremo a conoscere, quello che nei momenti decisivi che possono cambiare il destino di una partita o persino indirizzare un’intera carriera, sceglie di ingaggiare una lotta contro i suoi fantasmi, una lotta impari da cui non si esce vincitori. Con inevitabili e drammatiche conseguenze. Nel caso specifico, due incomprensibili errori gratuiti di dritto, una seconda di servizio talmente tenera da non raggiungere i 130 chilometri orari e una volée disastrosa. Un game che andrebbe fatto analizzare nelle scuole tennis durante le lezioni di gestione della pressione. La partita scivola via al tie-break del quinto, ma oramai non c’è più margine per recuperare, c’è spazio solo per un’ultima flebile illusione, poi il titolo Slam va all’austriaco. Da quel giorno è iniziata un’altra storia, quella dell’ex predestinato.

Nella scintillante Parigi degli anni Venti del Novecento, un’ereditiera americana di nome Gertrude Stein, raffinata scrittrice avanguardista e gran regina dei salotti parigini, amica intima di pittori come Cézanne e Picasso, utilizzò l’appellativo lost generation per definire una generazione di anime perse uscite frastornate dalla Grande Guerra, portavoce de facto di una nuova corrente letteraria che voleva disfarsi una volta per tutte di quella soffocante prosa vittoriana. “Huxley è un cadavere. Perché vuoi leggerlo?”, intimava Stein con tono minaccioso a un giovane Hemingway ancora intimorito.
Un’espressione talmente efficace che nel corso dei decenni è stata utilizzata spesso impropriamente, ma che descrive piuttosto bene quella generazione di tennisti estremamente talentuosi nati a metà degli anni Novanta, che avrebbe dovuto spaccare il mondo e prenderne il comando, ma che è rimasta intrappolata tra le gesta irripetibili dei Big 3 e l’arrivo dei due nuovi enfant prodige del tennis moderno. E che, dunque, oggi sembra davvero perduta, incapace di raccontare e scrivere la propria storia fino in fondo. Per la lost generation di Gertrude Stein il rifiuto per la letteratura della generazione precedente fu l’unico vero trait d’union; mentre questi ragazzi (uomini, oramai) sono cresciuti nel mito di Federer, Nadal, Murray e Djokovic, la cifra della loro sconfitta è nell’essere continuamente menzionati come pietra di paragone per ricordare quanto grandi siano stati i loro predecessori o quanto potrebbero esserlo i loro successori.
Ognuno naturalmente ha la sua storia personale. Per Stefanos Tsitsipas è quasi scontato, considerato anche il tossico rapporto con il padre allenatore, scomodare Edipo e la tragedia greca; mentre per Daniil Medvedev si può tranquillamente far riferimento a uno di quei magnifici personaggi da romanzo russo dell’Ottocento: più Dostoevskij che Tolstoj, potremmo aggiungere, visto l’animo tormentato e caotico del giocatore che si nasconde dietro un’apparente ordinarietà. Nel caso di Alexander Zverev, invece, il suo percorso fa pensare a lui come a un interprete della tradizione shakespeariana, di cui incarna molti dei tratti: l’ambizione, il destino avverso, il potere solo sfiorato, una certa drammaticità, anche posturale, accompagnata da un’estrema fragilità.
Figlio di emigranti russi trasferitisi in Germania nel 1991, con quel fisico da modello, gli occhi azzurri e i capelli biondi da surfista, assai competitivo e talentuoso, il tedesco è cresciuto con la consapevolezza che prima o poi sarebbe diventato numero 1 del mondo. A Zverev non si chiedeva se avrebbe vinto, ma quando. “Il suo tempismo, soprattutto al servizio, è da manuale, e il suo gioco di gambe nei colpi da fondo campo è quasi impeccabile. Se qualcuno nel tour maschile in questo momento sta colpendo un rovescio a due mani più potente, io non l’ho visto”, scrisse di lui nel 2017 sul New Yorker il giornalista sportivo Gerald Marzorati.
Per qualche anno, in tenera età, Sascha è riuscito a gestire con disinvoltura il peso di queste aspettative: è stato il primo nato dopo il 1990 ad aver vinto un torneo Master 1000 e l’unico ad aver battuto Federer sull’erba, Djokovic sul cemento e Nadal sulla terra. “Sascha è fortissimo”, dirà King Roger dopo la sorprendente sconfitta ad Halle. Troppo forte per non stare nell’élite del tennis, ma anche troppo vulnerabile per raggiungere la cima e tenersela stretta. È come se in quell’ultimo miglio, quello per la consacrazione, si fossero concentrate tutte le sue paure, tutti i suoi dubbi, tutti i suoi fantasmi. Se avesse messo in campo un paio di prime palle in quel maledetto nono game del quinto set contro Thiem a New York, forse oggi staremmo raccontando un’altra storia. Perché è da allora che Zverev ha iniziato a combattere due battaglie insieme, una contro l’avversario e una contro se stesso. Scegliendo sempre di focalizzarsi sulla seconda. Ancora Shakespeare, sempre inseguendo il destino del predestinato, che gli era stato cucito addosso.
Col tempo sono arrivati altri problemi. Prima, nel 2020, le gravi accuse di violenza domestica denunciate pubblicamente dall’ex fidanzata Olga Sharipova, che però Zverev ha sempre negato e che non hanno portato conseguenze, se non reputazionali, perché dopo un’indagine durata quindici mesi l’ATP ha deciso che non c’erano abbastanza prove; poi, nel 2023, un’altra accusa di violenza domestica è arrivata da Brenda Patea, ex fidanzata di Zverev e madre di sua figlia Mayla, questa risolta con un accordo, dopo l’avvio di un processo in tribunale; e, infine, il grave infortunio alla caviglia destra durante la semifinale del 2022 al Roland Garros, contro Rafa Nadal. Una partita epica, con il tetto dello Chatrier chiuso per pioggia, un’umidità assassina e lo spagnolo trentaseienne stremato dalla fatica e dai due precedenti match durati oltre quattro ore. Parigi è sempre stato il salotto di casa Nadal e, dunque, è verosimile sostenere che Zverev non avrebbe comunque vinto, ma in quel match ci sono due chiari indizi che testimoniano la fragilità del tedesco quando il gioco si fa duro: i quattro set point mancati nel tie-break del primo, quando conduceva 6-2, e i tre (sic) doppi falli nel turno di servizio che lo avrebbe portato a chiudere il secondo set e riprendere lo spagnolo.
A voler essere particolarmente pignoli, si potrebbe aggiungere che la storia di Zverev è disseminata di indizi anche in giovane età. Come a dire, tutto era già stato scritto, bisognava solo inquadrarlo nella giusta prospettiva. E allora riavvolgiamo di nuovo il nastro. Siamo nel 2016, ottavi di finale di Indian Wells, ancora contro Nadal. Il giovane predestinato gioca una partita quasi perfetta, domina gran parte degli scambi da fondo campo e sul 5-3 (i numeri non mentono mai) del terzo e decisivo set si procura un match point. Serve una buona prima esterna, si apre il campo dalla parte opposta con un diritto e su una flebile risposta dello spagnolo, che riesce a malapena a rimandare la pallina dall’altra parte, scaraventa in rete da due metri la più facile delle volée. Il punto successivo è un dritto da metà campo che fatica a raggiungere la rete. La partita finisce lì. Non farà più un punto, Sascha, perderà quattro game di fila e uscirà dal campo in lacrime.
Andre Agassi ha scritto che il tennis è uno sport violento, una sorta di pugilato figurato, dove però le sconfitte restano sottotraccia più a lungo. Sascha Zverev ha sempre reagito alle avversità, si è ripreso bene dall’infortunio ed è persino riuscito a disputare altre due finali Slam, sfortunatamente per lui trovandosi di fronte i due nuovi ragazzi terribili. Ma, nel profondo, non è mai riuscito a risolvere i suoi problemi. Per una manciata di mesi gli strani meccanismi che regolano e governano la classifica ATP lo hanno portato a essere numero 2 del mondo. Eppure in campo sembra non divertirsi più. “È la prima volta nella mia vita che mi sento così vuoto. Non riesco più a trovare la voglia di svegliarmi e andare a lavoro”, ha confessato recentemente. “Mi sento molto solo. E non provo più gioia, nemmeno quando vinco”. Ora ha cominciato anche a non vincere più. A Wimbledon è uscito al primo turno, allo US Open al terzo, dopo aver litigato con se stesso per tutta la partita.
A soli 28 anni è considerato il più forte giocatore al mondo a non aver mai vinto uno Slam, ma anche uno dei peggiori (ex) numero 2 al mondo della storia. Un ex predestinato.
Giuliano Malatesta è nato a Roma nel 1972. È convinto di avere il diritto mancino alla Rafa Nadal. Ha lavorato all’Ansa, la CBS, Il Messaggero, Il Venerdì di Repubblica, Il Manifesto. È autore per Arcana, Giulio Perrone Editore, 66thand2nd. Il suo ultimo libro è A Pamplona con Ernest Hemingway.
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