Highlights di una vita – Mezza Riga n. 6
I circa tre minuti delle sintesi dei match catturano molto poco del vero tennis: omettono la fatica, le pause, gli errori, i tic, gli sguardi, il punto brutto ma cruciale. Sono l’illusione di uno show
Questo numero di Mezza Riga è realizzato grazie al sostegno di Lavazza.
Testo di Giorgia Mecca
Illustrazione di Anna Parini
Cosa sarebbe la nostra vita se, come in un romanzo di José Saramago, ci fosse consentito di riassumerla in due minuti e trentanove secondi di highlights? Il ritratto sarebbe sfocato e codardo, sicuramente insincero, come quando postiamo un selfie con un filtro bellezza accentuato all’eccesso. I dieci colpi più belli, i gol più spettacolari, i rigori parati, la promozione, il matrimonio, i figli, eccetera. E il resto, il nostro lato oscuro? I momenti di paura, gli scazzi e gli scleri, quella stecca di dritto nel momento del match point, quando ci viene richiesto il meglio di noi stessi e noi diamo invece quello che abbiamo in quel momento, che è poco, dov’è finito quel poco? Quelle occhiaie dopo una pessima nottata, la faccia stremata dopo una giornata di lavoro pesante, l’espressione torva per una delusione sono materiale da highlights o da selfie? Forse no, eppure dovrebbero.

Viste in differita, con gli obblighi di un minutaggio ridotto per non annoiare spettatori inclini allo scroll o quelli che hanno bisogno di puro intrattenimento, le partite di tennis sembrano tutte un grande show. Vincenti su vincenti su vincenti, climax perenne, pubblico in piedi, una vera performance a uso e consumo degli spettatori che però risulta essere ancora meglio di una performance fine a se stessa, perché dopotutto ci saranno anche un vincitore e uno sconfitto, per aggiungere un po’ di dramma e non soltanto spettacolo.
Una delle tante cose che gli highlights non mostrano è il tempo di cui dispongono i giocatori di tennis, un tempo dilatato come le domeniche pomeriggio di luglio, il periodo dell’anno in cui si gioca il torneo di Wimbledon. La noia, le attese, i convenevoli, l’etichetta, tutti minuti sottratti all’azione. Hai sbagliato la prima di servizio? Nessun problema, hai a disposizione la seconda e quella pallina che tieni in mano e che studi come se da lei dipendesse il tuo destino, puoi gettarla via per sceglierne un’altra oppure farla rimbalzare una, due, tre, dieci volte per terra. Il tennis è pieno di tempi morti, la durata effettiva di una partita è circa la metà del periodo trascorso dai giocatori in campo. È un esercizio di pazienza e di resistenza alla distrazione, sia per chi gioca che per chi osserva, non soltanto attraverso i reel.
Due minuti e trenta: questa è la durata perfetta perfetta delle sintesi televisive; stare sotto i due minuti sarebbe ancora meglio, ma negli Slam con i tre set su cinque è impossibile e quindi si è trovato un compromesso. Ci sono anche le extended version per i big match, che su YouTube possono durare dai sei ai trenta minuti, pieni di pubblicità e di tentazioni di passare al video successivo, oppure agli shorts, sintesi della sintesi. Viene in mente la battuta di Woody Allen: “Ho fatto un corso di lettura veloce. Ho letto Guerra e pace. Parla della Russia”. Come si fa a riassumere in due minuti e trenta una partita di 5 ore e 29 minuti (sì, esattamente quella partita)? A cosa si rinuncia?
Tanto per cominciare si rinuncia agli errori non forzati. Che però non solo fanno parte del gioco, ma sono la metà di ciò che siamo quando scendiamo dentro un campo da tennis: nessuno sbaglia tanto quanto i tennisti, è un fatto.
Nel tennis la perfezione non esiste. Ho vinto quasi l’80 per cento dei match che ho giocato. Adesso ho una domanda per tutti voi. Quale percentuale di punti pensate che abbia vinto in quegli incontri? Solo il 54 per cento. In altre parole, anche i tennisti di alto livello vincono a malapena la metà dei punti che giocano.
Parole di Roger Federer nell’ormai celebre discorso ai neolaureati del Dartmouth College nel 2024. Metà del tempo che i professionisti trascorrono in campo lo passano a sbagliare. Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio. Anche così si diventa Roger Federer. Gli highlights cancellano gli errori, eliminano gli sprechi di tempo, fanno economia, stravolgono i match, raccontano un’altra storia. Puro tennis che non ha niente a che vedere con il tennis.
Wimbledon 2008, Federer contro Nadal. È la loro diciottesima sfida, la seconda finale Slam consecutiva. Qualche settimana prima Rafa Nadal aveva vinto a Parigi, ma Londra, se permettete, è un’altra cosa. A Londra ci si inchina ancora ai Reali, il campo viene considerato una Cattedrale, uno degli unici posti rimasti al mondo in cui la tradizione non risulta stucchevole. La pallina, lì dentro, dentro la Cattedrale, fa un rumore diverso, più nitido, primordiale, è il rumore di una pallina da tennis come ce lo si immaginerebbe se non lo si fosse mai sentito prima. Forma e sostanza coincidono. Gli highlights di quel match raccontano di dritti in top spin talmente angolati da lasciare immobile l’avversario, il ragazzo che stava per smettere di essere numero uno al mondo, di passanti in rovescio che toccano la riga e lasciano una nuvoletta bianca, di quel dritto a metà rete dopo il quale Nadal, nuovo padrone del tennis, si sdraia sull’erba provando una sensazione mai sperimentata prima. Ecco, il match point, la Russia.
Ciò che non raccontano questi concentrati di bellezza disseminata in momenti casuali del punteggio sono le interruzioni per pioggia, che portano il match a una durata complessiva di 7 ore e 15 minuti, il vento, i dettagli color oro della t-shirt di Roger Federer, che quel giorno e nelle settimane precedenti si era vestito in previsione della sesta vittoria consecutiva a Wimbledon, il respiro di Federer che fuoriesce da quella t-shirt; non raccontano i tragitti dalla panchina al campo, gli occhi di entrambi rivolti ai propri piedi, Nadal che si asciuga la fronte a ogni punto, i suoi tic snervanti e necessari (quanto tempo sprecato), lo zio Toni in piedi, l’occhio di falco che dà sempre torto allo svizzero, il buio della sera, certi sguardi pieni di terrore da una parte della rete, certi sguardi pieni di coraggio dall’altra. E viceversa. Anche il tempo dilatato, potenzialmente infinito, di una partita è un fattore, ma come lo spieghi in meno di tre minuti, come lo spieghi a chi vuole vedere l’azione e soltanto l’azione, la Cattedrale che si trasforma in un ring in cui vige la regola del total white? Come lo spieghi quel clic emotivo, il tennis che diventa una partita di scacchi, una gara a non farsi venire un esaurimento nervoso per primo, una seduta di mindfulness, un colpo di fortuna, la paura dell’altro che diventa ossigeno e ti tiene in piedi quando non hai nient’altro? La paura che genera piccoli miracoli. Certo, ci sono i tweener, le veroniche, i tuffi a rete, certe giocate che ci fanno esclamare WOW, passanti in recupero che finiscono di diritto nella top colpi di fine torneo. E allora replay, slow motion, cuoricini e pollici in alto, e per chi ha l’algoritmo ormai addestrato dall’ossessione per questo sport, reel, stories, video su TikTok.
Eppure uno vale uno, i circoletti rossi di Rino Tommasi valgono quanto i rovesci sbilenchi e del tutto privi di grazia di Daniil Medvedev. Alcuni capolavori della fisica risultano effimeri, inutili ai fini della partita, materiale per una storia su Instagram o poco più. Hai appena giocato il “punto del torneo”, come ha appena affermato entusiasta il telecronista? Complimenti, non è servito quasi a niente. Era solo un quindici, adesso prego, riaccomodati, fatti trovare pronto, ricomincia da capo.
Nel tennis il tempo a disposizione dei giocatori è poco meno infinito, ma il timing è limitato. Non basta o, ancora peggio, non serve essere superlativo, è necessario esserlo nel momento giusto. Altrimenti è uno spreco di energie. Instagram versus reality. Il genio estemporaneo vince sui social, nella cinica realtà è la monotona concretezza ad avere la meglio. È più importante essere solidi quando conta piuttosto che essere meravigliosi a casaccio.
Wimbledon 2019, finale tra Novak Djokovic e Roger Federer: 4 ore e 57 minuti di partita per 11 minuti e 10 secondi di highlights, una specie di Bignami. A cosa sono serviti tutti quei punti giocati e vinti, 218 per l’esattezza contro i 204 dell’avversario, se non hai sfruttato le chance che hai avuto per chiudere il match che ti avrebbe portato a vincere il ventunesimo Slam della carriera, il più difficile, il più disperato? Il primo match point fallito non compare nemmeno negli highlights, troppo poco spettacolare, eppure nella sua banalità avrebbe raccontato molto di cosa significa servire per il nono titolo a Wimbledon, a quasi trentotto anni, contro un avversario come Djokovic. Fai quello da una vita, il giocatore di tennis, stai vivendo gli attimi più importanti della tua carriera, non ti troverai mai più in quella situazione, questa è l’unica cosa di cui puoi essere sicuro. Basta un punto, ne hai vinti migliaia, sai come si fa, ricordatene ancora, bastano dieci secondi. Dagli spalti ti mostrano un indice alzato, “one more”, ancora uno. Hai appena fatto un ace per procurarti quella sensazione, il nodo in gola che precede la gloria. Fanne un altro. E invece no, tremi, tiri una prima di servizio che non ha alcun senso, la seconda resta dentro, Djokovic risponde centrale, tu ti scansi come se quella pallina, l’oggetto che conosci meglio al mondo, fosse un film dell’orrore, colpisci un dritto diagonale senza un pensiero dietro. “Out”, esclama il giudice di sedia. Niente di quei secondi merita un replay o una visualizzazione su TikTok. Ma quell’errore racconta quanto sia difficile avere una chance e sfruttarla. Sembra banale, non lo è.
A Wimbledon anche la scenografia confonde. Quel bianco immacolato che si muove su uno sfondo verde immutabile fa sembrare il tennis migliore di quanto non sia in realtà. Gli outfit del pubblico, la monarchia percepita e quella reale, il silenzio che solo lì dentro è assoluto. Non esiste più il serve and volley e anche l’erba è cambiata, eppure quando domandano ai giocatori che cosa rappresenta Wimbledon per loro, non riescono mai a dare risposte troppo razionali. Come quando chiedi a un bambino che cos’è la mamma. Che cosa si potrebbe dire di sensato, di non banale, la mamma è la mamma, e Wimbledon sta lì, da sempre, con quel suo terreno inospitale, raro, i rimbalzi difficilmente comprensibili, variazioni e slice, poco tempo per costruire. L’umidità, i ritardi per pioggia, e Jannik Sinner che spiega che non è una frase fatta, sull’erba un punto può davvero stravolgere il corso di un match, basta una palla break non sfruttata o una palla break concessa e convertita per trovarsi sotto di un set, a rincorrere senza terra rossa ad attutire il peso del corpo.
Wimbledon poi confonde doppiamente. La prima quando ci fa credere che il tennis debba essere prima di tutto o comunque in maniera non trascurabile una questione estetica anche nell’outfit; la seconda quando guardando Carlos Alcaraz in recupero, fuori dal campo, trasformare una difesa in un attacco di dritto illogico e vincente, fa venire voglia di provarci anche a noi. Disperati e sublimi a tentare drop shot senza avere la sensibilità nella mano, a tuffarci al volo senza un fisico che ci sorregga, a provare folli passanti lungolinea mentre siamo in recupero, sfiatati, senza la grazia per ritrovare l’equilibrio. Disperati e sublimi a ribaltare la sentenza che ha fatto sì che anche gli amatori non classificati, ma con tanto tennis visto alle spalle, cominciassero a vincere qualche partita nei tornei di provincia, non più bello ma inutile, ma tutto sommato, inutile ma bello. Se non nei fatti, almeno nelle intenzioni.
Tutta colpa degli highlights e dei reel, che cancellano la vergogna e le brutte figure, rimuovono dal database della memoria pubblica le sciocchezze, gli errori stupidi, gli smash contro il telone, gli schiaffi al volo sotto la rete. Eliminano tutto ciò che devi sbagliare prima di riuscire a eseguire un passante come dio comanda. Nella finale del Roland Garros di quest’anno, Jannik Sinner ha vinto 193 punti, Carlos Alcaraz ne ha vinto uno in meno, ma ha portato a casa il titolo. Altra piccola crudeltà del tennis, tempo infinito e timing circoscritto. Non contano i punti che vinci e non conta nemmeno come li vinci; contano quali vinci. E soprattutto quali perdi. Ma anche questo viene cancellato dagli highlights, l’elenco cronologico di memorabilia dove la gloria prevale sul dolore e l’adrenalina sulla noia, anche a scapito della realtà. Potessimo davvero riassumere la nostra vita in due minuti e trentanove secondi sarebbe sola luce e pochissimo buio, una vita light, zero rimpianti e zero rimorsi, il rovescio più bello che abbiamo mai colpito in circostanze disperate, e non esisterebbero i match point che abbiamo sprecato. Ma non sarebbe vita. E non sarebbe tennis.
Lavazza ha fatto i suoi primi passi nel mondo del tennis nel 2011 scegliendo proprio Wimbledon come primo torneo: un connubio tra due icone di tradizione, eccellenza e ritualità. Questa partnership ha segnato l’inizio di un percorso che ha visto Lavazza espandersi negli anni in tutti principali tornei del mondo, da Parigi a New York, da Madrid a Shanghai.
Nel 2025, Lavazza celebra con orgoglio 15 anni di presenza a Wimbledon, dove continua a portare l’autentica coffee experience italiana.
Giorgia Mecca è nata a Torino nel 1989. Gioca a tennis da quando ha memoria, e quando non gioca lo guarda. Collabora con Sky Sport, il Foglio e il Venerdì di Repubblica. Ha scritto un libro: Serena e Venus Williams, nel nome del padre (66thand2nd).
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Testo molto bello, denso ( senza una riga di troppo); insomma , uno di quei testi che rileggi subito. E complimenti anche all’autrice dell’illustrazione.