Tennis fragile – Mezza Riga n. 10
Jannik Sinner è solo l’ultimo esempio di come gli sportivi possano frantumarsi, mostrando le loro debolezze. L’antica arte del kintsugi insegna che sono proprio quelle crepe a renderli umani, come noi
Nelle prime pagine di quello straordinario romanzo-vita che è la Recherche di Proust, c’è un momento nel quale lo scrittore ragazzino ottiene insperatamente ciò che non avrebbe mai immaginato di poter avere: sua madre passerà la notte nella stanza con lui. Le emozioni accumulate nel corso della giornata e della sera lo portano a un pianto dirotto. È il momento nel quale nella severità educativa di una famiglia agiata di fine Ottocento subentra la tenerezza, il riconoscimento da parte dei genitori della fragilità del ragazzo. Si può dire che, senza quella fragilità, questa colonna portante della letteratura occidentale non sarebbe mai stata scritta.
Spesso dimentichiamo che la possibilità di frantumarsi, di rompersi, di sbeccarsi è non solo (banalmente) ciò che ci rende umani, ma anche ciò che ci rende noi stessi: ciascuno ha i suoi frammenti, le sue schegge, le sue linee di rottura, che insieme a tutto il resto donano rotondità e compiutezza a quello che siamo. Ci rende persone. Siamo inclini a riconoscerlo troppo poco negli altri, quasi mai negli sportivi. Nell’ammirare questi atleti straordinari, capaci di rendere possibile quel che per noi è impensabile, come colpire una sfera imperfetta di gomma e feltro lanciata a 200 chilometri orari da una ventina di metri di distanza con un attrezzo dalla forma piuttosto bizzarra, dimentichiamo la loro umanità.
Non è stato il caso di Jannik Sinner, certo, al quale è arrivata una montagna di solidarietà. Eppure anche la condizione fisica che l’ha portato a ritirarsi dalla finale di Cincinnati ha spinto alcuni a ipotizzare un complotto a base di panna montata inacidita dal caldo torrido per il dolce del suo compleanno. Si ricerca un colpevole esterno per non riconoscere che anche la macchina perfetta – 26 vittorie di fila sul cemento – si può inceppare. Parte del recente mito di Sinner è fondato sull’inscalfibilità, che lui contribuisce anche involontariamente ad alimentare nella quasi assenza di gesti di stizza, nel respiro durante i colpi che non diventa mai un grugnito o un urlo, negli incontri pubblici e con la stampa nei quali è, quasi invariabilmente, il ragazzo con la testa sempre ordinata. La sua immagine pubblica è ora patrimonio di milioni di tifosi in Italia e nel mondo, non solo di noi appassionati che sappiamo quanto questo sport si basi sulla fallibilità, come ha ricordato Roger Federer nel suo discorso al Dartmouth College. Qualche sciocca polemicuzza dopo la finale del Roland Garros dello scorso giugno ce lo ha dimostrato, ed è facile che il futuro riservi qualcosa di simile.
In Giappone esiste dalla metà del millennio scorso un’arte che si chiama kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”: quando un oggetto di ceramica si rompe – le tazze per la sacra cerimonia del tè, all’epoca – lo si ricompone utilizzando una lacca speciale che poi viene ricoperta di polvere d’oro. Ne esce una tazza, una brocca, una scodella che per certi versi è qualcosa di nuovo, ma per altri è la stessa di prima. La differenza è l’esposizione di quelle linee di rottura, che ne rendono evidenti le fragilità: è un oggetto che per questo diventa più affascinante, più prezioso. Mi vien da dire che dovremmo guardare a queste ragazze e a questi ragazzi con lo stesso sguardo indulgente, non commiserando i momenti di dolore, di abbandono, di sconforto, di cedimento in campo, ma apprezzandoli perché li rendono ciò che sono.
Il tennis è feroce, più feroce di altri sport. Lo raccontano le storie dei giocatori, i monologhi sul campo, i tic, le manie, le racchette spaccate, i pianti negli spogliatoi e davanti ai microfoni. Il tennis è feroce perché è solitario. Quando ci si ritrova in quel rettangolo, quasi non c’è differenza (in questo specifico aspetto, beninteso) tra noi che calchiamo maldestramente il terreno sul quale ci alleniamo, e loro, sotto i riflettori e gli occhi della folla, del mondo. Solo che noi ne usciamo, ci facciamo la doccia e torniamo alla nostra vita, al lavoro e agli affetti che sono la parte prevalente delle nostre esistenze. Per loro è esattamente l’opposto: quella sensazione totalizzante che provano in campo è quasi tutto ciò che hanno. Con Jannik – soprattutto a queste latitudini – siamo spesso indulgenti, ma siamo meno inclini al perdono, alla tenerezza, quando si tratta di altri giocatori o altre questioni, soprattutto quelle che attengono alla tenuta mentale.
Un esempio su tutti, se vogliamo rimanere nella top ten maschile di oggi, è quello di Lorenzo Musetti, un giocatore che ci fa impazzire in tutti e due i sensi. Da una parte, le giocate fenomenali, l’eleganza, il rovescio a una mano, e dall’altra l’incostanza, la fatica in match anche apparentemente semplici. Un giocatore a cui non si perdona di aver tenuto lo stesso coach per così tanti anni (ehi, ma è il numero 10 del mondo!), un certo linguaggio in campo, persino il fatto di aver messo al mondo un figlio e di aspettarne un secondo, considerati da alcuni solo degli elementi di distrazione e non componenti della vita di un uomo, come possono esserlo (si perdoneranno a un padre di tre gli accostamenti irrispettosi) l’amore per gli animali, il giardinaggio, la passione per le auto o l’essere inclini ai piaceri carnali. Già, i piaceri carnali: siamo arrivati al punto di sostenere, dandoci di gomito, che i problemi fisici di Matteo Berrettini e le sue débâcle sul campo fossero dovuti a una relazione sentimentale con una donna che ha qualche anno più di lui. E giù a dire che gli addominali fragili, uno dei problemi più drammatici per un tennista, erano colpa di chissà quali pratiche sessuali e che avrebbe dovuto subito lasciare Melissa Satta per tornare tra i primi dieci al mondo. Come abbiamo visto, non è bastato e anche Matteo ha avuto modo di raccontare del dolore, della perdita di senso, della fatica a stare in campo fisicamente e mentalmente. Così come sono chiare a tutti, ma considerate altrettanto imperdonabili, le fragilità di Stefanos Tsitsipas, altro alfiere del rovescio a una mano, per il quale ormai abbiam perso il conto delle volte nelle quali ha mollato e ripreso suo padre come guida tennistica, mentale e spirituale. O Alexander Zverev, sempre a un passo dal vincere uno Slam, sempre a un passo dal diventare numero 1 del mondo e schiacciato dall’arrivo di quei due mostri che si stanno spartendo il tennis mondiale, tra i primi tennisti uomini in attività ad ammettere, dopo l’eliminazione da Wimbledon al primo turno di quest’anno, le sue difficoltà psicologiche, in particolare un certo tipo di solitudine dentro e fuori dal campo “che non ho mai provato prima d’ora”.
Nel 2021 Naomi Osaka, vincitrice di quattro Slam e all’epoca numero 2 al mondo raccontò di avere problemi di depressione. Si ritirò dal Roland Garros dopo uno scontro con gli organizzatori perché aveva deciso, a causa dell’ansia, di non partecipare alle conferenze stampa. Si innescò un dibattito piuttosto surreale, se si pensa che i fatti avvennero a dieci anni dalla pubblicazione di Open, quel piccolo capolavoro autobiografico di Andre Agassi, nel quale venivano messe a nudo le tensioni e le sofferenze di chi pratica questo sport mentalmente devastante. Qualcuno scrisse (testuale, si dice il peccato e non il peccatore): “È difficile pensare che una tennista che vince quattro finali di Slam su quattro possa essere un po’ fragile di testa”. Eppure anche Serena Williams, la regina, la tennista più forte di tutti i tempi, scoppiò in lacrime quello stesso anno dopo la sconfitta agli Australian Open proprio per mano della Osaka.
Dunque, se ci piace questo circo (e ci piace), dovremmo averne rispetto prima di tutto noi. Musetti non sarebbe Musetti e non sarebbe diventato Musetti se non avesse anche quelle componenti. Ora provate a guardare meglio quella tazza da tè, anzi quella pallina, con le sue venature d’oro e forse vi accorgerete che certamente potrebbe essere più solida, resistere meglio al caldo o al freddo, alla potenza dei colpi, potrebbe essere costruita con una ceramica più spessa e resistente. Ma non è perfetta così, alla fin fine?
Simone Spetia, giornalista di Radio 24. Interessato di politica, economia, finanza, social, storia, tecnologia, e soprattutto di tennis, oggi è autore e conduttore di “24 Mattino”.
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Argomento centrato e trattato con molto rispetto del gioco del tennis e dei suoi attori. E’ stata una lettura piacevole e confortante, nel mare delle tante voci “inutili” sulla questione. Non dimentichiamoci che la gogna degli "esperti" inizia molto molto prima del disagio personale: “Ma perché sbagliano? Cosa vuoi che sia a quei livelli metterla dentro? Questa la mettevo anche io!” Certo! “A quei livelli” rispondere ad una pallina, dura ed elastica che va a 215 Km/h, con effetti devastanti di rotazione, con corde altrettanto dure tirate al massimo (giusto poco prima che si rompa tutto!) è già di per sé un mezzo miracolo, figuriamoci avere il tempo di architettare un passante o metterla all’incrocio delle righe.
Il tennis, “a quei livelli”, andrebbe sempre visto a bocca aperta e occhi sgranati, almeno fino a che un altoparlante gracchiante dirà “gioco, partita, incontro”, riportandoci alla realtà. E se qualcuno, a volte, si inceppa impariamo a dire "Ok, sarà per la prossima".
Ci fu un tempo, credo tra il 2016 e il 2017, in cui Nole Djokovic attraversò un crisi da cui sembrava non potesse più tornare. Adesso vediamo le rime di frattura e le suture dorate sul vincitore, a tacer d’altro, di 23 slam. Una parabola esemplare, da non dimenticare.